Lo sguardo finale di Seydou (Seydou Sarr) — protagonista senegalese di etnia wolof del film “Io capitano” di Matteo Garrone — mi ha ricordato molto un altro sguardo finale cinematografico: quello de “Il Laureato”.
Seydou è partito da Dakar, capitale del Senegal, ha attraversato il deserto, la Libia, le torture, il lavoro forzato e ora si trova di fronte alle coste italiane, su un’imbarcazione di fortuna, con un capitano altrettanto di fortuna, il tutto per seguire il desiderio di andare in Europa, di aiutare la famiglia e magari diventare un cantante famoso. Benjamin (Dustin Hoffman), come Seydou, ha lottato disperatamente per qualcosa che ha sempre desiderato (o che crede di aver sempre desiderato) e ora, insieme alla gioia per averlo ottenuto, si rende conto di essere una persona diversa, ma soprattutto di essersi messo in qualcosa di molto più grande lui.
La storia di “Io capitano”, infatti, nasce da quella reale di Fofana Amara, un ragazzo che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia, ma che, una volta in Italia, era stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed era finito in carcere per sei mesi. Qualcosa di simile è successo anche in questi giorni a Ravenna, dove è arrivata la nave di Emergency Life Support con a bordo 28 persone, una delle quali è stata fermata dalla Polizia, perché sarebbe stata alla guida del gommone prima dei soccorsi, poi rilasciata.
Sono andata a vedere il film, vincitore del Leone d’Argento (miglior regia) alla Mostra di Venezia e rappresentante dell’Italia agli Oscar, al cinema Mariani di Ravenna, dove il 18 ottobre ci sarà una proiezione con in sala i due protagonisti, tra cui Seydou Sarr.
Mentre parcheggiavo la bici ho visto arrivare quattro ragazzi e una ragazza nerissimi — abbiate fiducia — che cercavano spaesati il piccolo cinema su Google Maps, poi entrati in sala.
“Io capitano”, quasi per un gioco della sorte, esce nei giorni in cui Lampedusa è affollatissima e il Governo è dovuto tornare ad affrontare il tema migrazione dopo essersi occupato durante l’estate di altre questioni marine. A differenza del film di Garrone, però, la rotta sembra essere cambiata, non solo libica, ma soprattutto tunisina.
Terminata la proiezione, dopo aver fatto un paio di giri dell’isolato in bici e aver vinto il mix di sentimenti che avevo in corpo, decido finalmente di andare a parlare con i ragazzi che avevo visto all’entrata.
Chiedo cosa ne pensano e uno di loro mi dice che «dovrebbero farlo vedere anche in Senegal e in televisione a tutti, non solo qui in Italia», perché le persone sanno bene a che pericoli vanno incontro, ma magari vederlo li aiuterebbe a cambiare idea o a scegliere altre vie. Per di più «è solo un film, la realtà sarà molto peggio».
Mi dice che sono cresciuti qui, che sono arrivati in Italia per vie legali, perché avevano già dei parenti qui, ma che «un suo cugino vuole tentare quella strada». Gli chiedo da dove vengono e — stupito dalla domanda — mi risponde dal Senegal.
D’altronde avrei potuto capirlo subito, quando avevo notato il loro essere nerissimi, proprio come Seydou Sarr, e come Mamadou Gueye, amico di famiglia a cui da piccola avevo detto la frase «Modou ma tu non sei nero, sei nerissimo», rimasta poi parte del nostro lessico famigliare.
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Gueye, senegalese di etnia wolof, residente a Ravenna, nel 1995 ha pubblicato insieme a Laura Gambi e Francesco Bonatesta il libro “I wolof del Senegal. Lingua e cultura“, edito da L’Harmattan Italia. Si tratta di uno dei primi manuali in italiano sulla lingua e la cultura messe in scena da Garrone.
“Io capitano”, infatti, è girato in lingua wolof, la più diffusa in Senegal nonostante quella ufficiale sia il francese. Il francese è la lingua della burocrazia, della pubblica amministrazione ed è insegnata nelle scuole. Quella wolof, invece, è parlata da circa l’80% della popolazione ed è una delle 6 lingue nazionali.
I wolof sono presenti oltre che nel Senegal, in Gambia. Anche a Dakar, capitale senegalese e punto di partenza del viaggio di Seydou, la maggior parte dei cittadini è wolof; in tutto il paese sono circa il 40% della popolazione.
«La cultura wolof si è sviluppata principalmente in forma orale — mi spiega Gueye — e ogni famiglia rispettabile ha un suo griot, un cantastorie. Il cantastorie detiene la genealogia e la memoria della famiglia, permettendo di ricostruire secoli di storia. Sono andato in un villaggio a parlare con un griot per raccontare la storia del filosofo Kocc Barma Fall, vissuto nel sedicesimo secolo».
«Abbiamo deciso di fare il libro — mi spiega Bonatesta, uno dei coautori — in un momento particolare. Da qualche anno (ndr. dal 1986 circa) le persone che si spostavano dal Senegal all’Italia erano aumentate, anche perché l’introduzione del visto non permetteva più di venire in Italia solo per il lavoro stagionale. Quindi avevano iniziato a spostarsi anche le mogli e stavano nascendo in Italia i loro figli. Della storia e della cultura senegalese non si sapeva praticamente niente, allora abbiamo pensato di creare un testo molto semplice, senza grandi pretese, per spiegare i tratti fondamentali di questa cultura, la sua lingua e i suoi valori. Volevamo far capire che non erano così distanti dai nostri. A quasi trent’anni non saprei dire se ci siamo riusciti».
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