Byron in ‘trappola d’amore’ nella monotona Ravenna

Non era ancora la fine del 1819 quando Byron ritornò a Ravenna chiamato probabilmente dal padre di Teresa, Ruggiero Gamba, preoccupato per la salute della figlia e con il permesso del marito. Prontamente il poeta si diresse a Ravenna e ironizzando con Hoppner su una voce che circolava su un suo presunto rapimento di una ragazza da un convento ferrarese, ribatté che il solo ad essere rapito dopo la guerra di Troia poteva essere solo lui.

Un vero e proprio rapimento o, meglio, una trappola fu il richiamo di Ruggero Gamba se è vero che Teresa ritornò in perfetta salute al suo arrivo. Byron dimenticò tutti i piani fatti a Venezia nell’autunno appena trascorso, il suo possibile ritorno in Inghilterra, la prospettiva del Sud America e si rassegnò al ruolo di “cavalier servente”, pronto a soddisfare, come un cicisbeo, il volere di Teresa e a maneggiare scialle e ventaglio.

La vita a Ravenna: monotona ma accogliente

Scrivendo agli amici, non nasconde che la vita di Ravenna era alquanto monotona, il teatro per tessere intrighi, il gioco del “faraone” con piccole somme, una vita da provincia e di emarginazione dove le vicende europee risuonavano in lontananza; gli obblighi del “serventismo” erano complicati e non ammettevano deviazioni, una sorta di gioco di cuori.

Byron venne affascinato da questa teatralità ravennate e cortese accoglienza: tutti lo avevo ricevuto nel migliore dei modi, persino il rappresentante del Papa, il cardinal legato; aveva varcato la soglie del palazzo Cavalli (il marchese era lo zio di Teresa e pilastro della nobiltà ravennate) con il beneplacito di tutti. Sempre scrivendo all’amico Hoppner, esprime nel gennaio del 1920, dopo circa un mese dalla sua venuta, che non sapeva se restare ancora qualche giorno, una settimana o tutta la vita.

Le abitudini della piccola Ravenna, le passeggiate lungo il corso, le serate a Teatro erano pacifiche occupazioni per la vita di Byron, una sorta di mindfulness per la sua inquietudine, il suo animo ribelle. Il diverso lo aveva sempre attratto per il suo anticonformismo e Ravenna e la bella contessa era qualcosa che non aveva mai esperito, una realtà d’altri tempi, una nobiltà salottiera autoreferenziale che lo coinvolgeva e che considerava la sua presenza a Ravenna come acquisita, un pezzo unico aggiunto in un quadro di famiglia.

Byron si sentiva trattenuto e decise di prendere in affitto una serie di stanze a palazzo Guiccioli con la soddisfazione di Teresa che vedeva in gabbia il suo amato ed anche del conte Guiccioli che si vedeva remunerato. Byron si sentiva in esilio e questo gli dava sollievo, una dolce malinconia, una pausa dai clamori di Venezia, un momento di riflessione sulle vicende politiche che lo avevano coinvolto nella sua patria.  A Ravenna tutto sembrava lontano, si sentiva “dantesco”, in una sorta di esilio fra quelle pinete che avevano fatto da sfondo agli ultimi canti del Purgatorio con la loro marina tremolante. Il passato bizantino e romano di Ravenna non gli erano di interesse, non scrisse nulla sulle basiliche tardoantiche.

Byron ritirato Palazzo Guiccioli, fino al decreto papale

Palazzo Guiccioli era vasto e tetro, si affacciava con le sue alte mura e le sue finestre con grosse sbarre su una strada a ciottoli; la facciata era  interrotta da una imponente porte cochère e da un balconcino sporgente in ferro battuto. Byron entrò in quel palazzo con il devoto Fletcher e Tita, il gondoliere che aveva portato con sé da Venezia, un mosaico della sua vita. Visse appartato dalla famiglia Guiccioli  con cui spartiva solo Teresa: di mattino dormiva fino a tarda ora, di pomeriggio usciva a cavallo nella pineta e verso sera diventava il cicisbeo e iniziava la sua recita: “Ravenna val bene una recita”.

Questa vita monotona fece guadagnare  a Byron in salute mentale e fisica: divenne più controllato, rispettabile, riuscì a scampare alle sue passioni violente e distruttive. Anche la relazione con Teresa lo appassionava per la tranquillità, la devozione della donna e gli dava il senso di casa, ben diversamente dalla solitudine che aveva sofferto a Venezia, nonostante la vibrante vita di società. Trovò molto conforto e simpatia in seno alla famiglia Gamba, padre e figlio e con loro condivise l’entusiasmo per la causa liberale.

Palazzo Guiccioli nella primavera del 1920 divenne il supporto murario per scritte che inneggiavano morte al papa e la re e, così, il conte marito di Teresa ordinò alla moglie di interrompere la relazione con Byron. Il poeta sarebbe stato accondiscendente ma la giovane amante come una eroina romantica rifiutò di accettare la convivenza con il marito se avesse perso Byron.

I Gamba, a fronte della richiesta di divorzio da parte del conte, proposero una separazione con restituzione di dote, il che non sarebbe convenuto all’avaro Guiccioli. Solo l’intervento del legato pontificio e il decreto papale risolse la gravosa faccenda. La separazione ufficiale mise fine alle pene di Teresa insieme ad un ammontare di duecento sterline di alimenti all’anno. Teresa fece ritorno al palazzo del padre fuori città e continuò a vedere Byron con il permesso paterno.

Maria Grazia Lenzi

Diplomatasi nel 1978 al Liceo Classico Dante Alighieri di Ravenna, si è laureata in Lingua e Letteratura Latina presso l’Ateneo bolognese nel 1985. Laureatasi anche in Lingue Moderne e Conservazione dei Beni culturali, oltre a inglese, francese e spagnolo, ha approfondito l’arabo con il corso triennale presso l’IsiAO, conseguendo il diploma nel 2009. Quasi contemporaneamente si è dedicata ad un corso di perfezionamento sull’organizzazione della città storica, del territorio e dei loro modelli di rappresentazione presso la Scuola Superiore di Bologna.

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