06 Nov 2023 09:25 - In evidenza
Silvia Calderoni: «Se ho dei poteri? Credo sia meglio non saperlo e continuare a cercarli»
Attrice e performer di Lugo, dopo aver collezionato una serie di successi, tra cui la campagna per Gucci e lo spettacolo "MDLSX", ha pubblicato il suo primo romanzo. "Denti di Latte" verrà presentato dall'autrice alla Biblioteca Classense il 6 novembre, poi alla Trisi di Lugo l'8.
di Lucia Bonatesta
Forse la ricorderete per la campagna di Gucci diretta da Gus Van Sant ”Overture of something that never ended”, o magari per il video di Motta ”Ed è quasi come essere felice”, o per il film ”La leggenda di Kaspar Hauser”. A Ravenna, se siete appassionati di teatro, potreste averla vista al Rasi in ”Tutto Brucia” o al Polis Festival in “You were nothing but wind” o nel lontano 2016 ad Ammutinamenti con il cult ”MDLSX”. Nata a Lugo nel 1981, nel 2010 ha vinto il premio Ubu come miglior under 30, in un crescendo di successi che l’ha portata anche a recitare con Judith Malina, co-fondatrice del Living Theatre. Dal 2006 è parte della compagnia indipendente Motus, che ha da poco debuttato ed è in tour con “Frankenstein (a love story)”. Come se tutto questo non bastasse, a settembre Silvia Calderoni ha pubblicato il suo primo romanzo.
Si intitola ”Denti di latte” ed è edito da Fandango. Racconta l’infanzia attraverso persone e luoghi reali, ma la fantasia fa da padrona: è il tentativo di ricomporre i pezzi di un puzzle impossibile. Per conoscere meglio Silvia Calderoni, partiamo da lui.
“Denti di latte” è il suo primo romanzo. Come mai ha deciso di raccontare proprio l’infanzia?
«Era la prima volta che mi confrontavo con un romanzo, sono voluta partire dal principio. Poi l’infanzia porta in sé dei segreti che in qualche modo mi piacerebbe rimettere a sistema nell’età adulta. Mi auguro che questo funzioni anche per le persone che leggeranno il libro».
Nell’esergo si legge «Nonostante che le persone e i luoghi citati non sono inventati, questo non è un romanzo autobiografico. La fantasia è la polpa dei nostri ricordi». Come mai questa scelta?
«Più dell’autobiografia, mi interessava stare a cavallo tra immaginazione e ricordo, mi sembra un modo più onesto di raccontare. Ho lavorato come se i ricordi fossero tutti dentro a un magazzino ricoperti di cellophane: ho aperto i pacchetti e ho trovato degli oggetti. A volte andavano insieme ad altri ricordi e a volte erano il punto di partenza per una storia verosimile. Questo ha anche a che fare con il teatro, dove spesso il verosimile scalza il vero».
Nel romanzo ci sono momenti dove in un piccolo intervallo temporale — come può essere rimandare la sveglia di cinque minuti — la Silvia bambina è in grado di creare un mondo. Crede che la noia abbia avuto un ruolo in questo?
«Io non credo che bambini e bambine si annoino, penso che la noia abbia a che fare con l’adolescenza e con l’età adulta. Oppure è qualcosa che noi leggiamo in alcuni momenti della vita di bambini e bambine, perché non riusciamo a decifrarli e quindi li chiamiamo “noia”. Ma in realtà loro stanno facendo qualcos’altro, qualcosa che noi non facciamo più: è una forma un pochino più alta di stare tra le cose ed esserne loro stessi il metro».
Lei è cresciuta a Lugo di Romagna e il romanzo è ambientato proprio lì. In che modo la provincia l’ha influenzata?
«Ho ambientato il romanzo nel posto dove ho trascorso la mia di infanzia un po’ per nobilitare la semplicità. Questa è una storia in cui non accade niente di eccezionale, nel senso che non ci sono accadimenti che la rendono un’eccezione rispetto alle storie di tutti e di tutte le altre. In questa non eccezione, però, non è detto che la fantasia non possa galoppare velocissima. È un modo per rivendicare tutte quelle infanzie apparentemente non eccezionali, che invece poi non eccezionali non erano. In più c’è una componente affettiva: ci tenevo a rappresentare la terra e le persone che hanno vissuto quel pezzo della mia vita».
Nel romanzo, infatti, c’è un momento molto dolce in cui la Silvia bambina lascia un promemoria alla se stessa adolescente con scritto «Ti voglio bene Mamma». Se potesse lasciare oggi un biglietto alla sé adolescente o bambina cosa le direbbe?
«Forse il vero messaggio che ho lasciato alla me bambina è questo libretto giallo, dove ho cercato di rimettere insieme i pezzi e di mettere le mani nelle fantasie. È il messaggio più importante che posso dare a quella bambina col caschetto biondo».
Chi erano i suoi idoli da adolescente?
«Avevo questo poster gigantesco in camera, che secondo me è ancora a Lugo, di Brian Molko, il cantante dei Placebo. Oltre a loro, gli Smashing Pumpkins e tutto quel filone, poi sono arrivati i Radiohead con cui struggersi sotto la doccia. A un certo punto ho iniziato ad avere degli idoli più vicini: Fiorenza Menni del Teatrino Clandestino, gli stessi Motus. Nel cinema invece Harmony Korine, ero in fissa con “Gummo”, e Gus Van Sant. Poi a volte succedono quelle cose che non avresti mai creduto possibili e ti ritrovi a lavorare con quello che era il tuo idolo da ragazza».
Lei è attrice e performer, ma nella sua vita precedente correva, era una fondista. Un elemento forte nelle sue performance è l’uso del corpo. Mettere alla prova il proprio corpo è un atto comune sia allo sport sia alla performance. Per lei è stata una continuità o una rottura?
«In qualche modo c’è stata una continuità, dallo sport ho ereditato la pratica dell’allenamento, che ha anche a che fare con la performance. Poi l’approccio ovviamente è molto diverso, ma la pratica per arrivarci è simile. Lo è anche il tipo di relazione che si ha col corpo: ascolto, capacità di leggere i momenti in cui si incrina o si rompe, attenzione costante a non romperlo».
E chi è stata la prima persona che ha creduto veramente in lei?
«Mia madre. I primi primi primi certamente i miei. Poi in modo artistico direi la coreografa di Ravenna Monica Francia».
Tornando alla terra, lei è cresciuta in Romagna in un periodo molto florido per il teatro. Nel giro di 30 chilometri si incontravano molte compagnie che facevano teatro di ricerca. Che ruolo ha avuto per lei l’essere cresciuta qui?
«Sicuramente ha avuto un ruolo positivo, ci tengo molto e dico sempre che vengo da un piccolo paese di nome Lugo. Non ho, però, quel tipo di orgoglio che ti fa credere che alcune province siano meglio di altre, ci sono lati positivi e negativi come in ogni cosa. Di fatto l’Italia è tutta provincia e siamo tutti di provincia, anche se a un certo punto ce ne vergogniamo. Certamente per me c’è stata una triangolazione potente: ero adolescente in un periodo in cui dal punto di vista teatrale la Romagna era molto forte. Questo mi ha permesso di entrare in contatto con quello che poi è stato il mio futuro. Devo alla Romagna il fatto di avermi messo in contatto con qualcosa che poi mi ha portata via da lei, è paradossale».
In proposito, in un’intervista ha detto che è stato Cesare Ronconi del Teatro della Valdoca a farla “ricollegare alla terra”. In che senso?
«Cesare mi diceva spesso “testa tra le nuvole ma piedi per terra” ed è qualcosa che mi porto ancora dietro. Poi con Cesare e Mariangela (ndr. Gualtieri) c’è ancora un rapporto molto bello. È stata presentata in questi giorni un’opera cinematografica di Ronconi in cui io sono una delle interpreti. È una delle compagnie con cui ho iniziato e ancora dopo 20 anni c’è un legame molto forte. Per me la Romagna è un’andata e ritorno, non solo il luogo degli affetti, ma anche artisticamente ci sono realtà tra le più interessanti in Italia. Motus ovviamente è una di queste».
Quindi per un adolescente che vuole fare teatro oggi la Romagna resta un buon posto in cui crescere?
«Per un adolescente assolutamente sì; poi, essendo il teatro qualcosa che va visto tanto, consiglierei anche di spostarsi, non tanto per farlo ma per vederlo. È una condizione non solo Romagnola, ma riguarda tutta l’Italia. Le stagioni o i festival che toccano il teatro contemporaneo e sperimentale sono sempre meno, quindi per vederlo bisogna spostarsi tanto».
Dopo il periodo con Teatro Valdoca, dal 2006 fa parte di Motus. Poi nel 2015, sempre con Motus, c’è stato il suo solo “MDLSX”, un successo con cui ha girato tutto il mondo. A quante repliche è arrivata? O ha smesso di contarle?
«Mmm… credo 300 o qualcosa del genere. Poi tra un po’ ne faremo una a Longiano, sempre per rimanere legati a questa cosa della provincia. Sono molto contenta di farla lì, perché “MDLSX” ha debuttato a Sant’Arcangelo in uno spazio piccolissimo. È un ritorno dopo tantissimo tempo molto vicino a dove tutto è iniziato».
Ha mai avuto paura che il personaggio di “MDLSX” potesse intrappolarla?
«Paura no, nel senso che poi sono andata molto velocemente avanti con altri progetti. Sicuramente è uno dei lavori che più è rimasto negli occhi e nel cuore dei pubblici, però non mi sono mai sentita in trappola. Ovviamente sono passati 8 anni e c’è tanta differenza tra la Silvia di allora e quella di adesso. Ma questo entra nel lavoro. Se mi sentissi intrappolata non lo farei più».
Calderoni, lei è riuscita a tenere insieme un sacco di cose. Provo ad elencarne alcune: è stata la protagonista della campagna di Gucci diretta da Gus Van Sant, ha calcato il palco con Judith Malina, fondatrice del Living Theatre, è attrice e autrice di Motus; fa dj-set, ha recitato nel film cult “La leggenda di Kaspar Hauser” e non solo, è parte attiva nella comunità queer e nelle sue battaglie politiche. Come fa a tenere insieme tutto questo?
«Non lo so… un po’ il motore è la curiosità e la voglia di stare in relazione con cose nuove. Nella mia vita c’è un basso continuo che è il teatro, poi ci sono ogni tanto degli assoli, che sono spinti dalla curiosità, ma anche dalla necessità di tuffarsi in cose nuove. Per come faccio io teatro ho bisogno di nutrirlo con il mondo e con le altre arti, che danno energia a quello che vado a fare. Certamente è una vita con tantissima valigia e tantissimi treni, in cui a volte ci si rende conto che gli affetti sono lontani. E allora capita di chiedersi se non si stia sbagliando qualcosa».
Tornando al libro, c’è un momento in cui ci sono due Silvie: una tutta sporca di terra, impaurita e rannicchiata sotto il lavandino, e un’altra più “ordinaria” o brava bambina, che l’aiuta a lavarsi e ripulirsi. Quale si sente delle due?
«Direi quella che l’aiuta a lavarsi… in qualche modo mi sono sempre sentita quella. Le due Silvie sono entrambe dentro di me. La selvatichezza mi abita per brevi momenti e magari è quella che esce di più sul palco, ma non è quello che sono nella quotidianità».
Nel libro scrive «Lo so che ho dei poteri. Devo solo capire quali». Oggi lo ha capito?
«Qualcosa sì, ma forse quella frase che arriva così da lontano è meglio non capirla e continuare a cercarli. È molto bello allenare poteri che non hai».
C’è una cosa che non ha mai fatto e che vorrebbe fare?
«Avrei voglia di fare dei viaggi lunghi per vedere pezzi di mondo che non ho visto. Poi mi piacerebbe tornare a confrontarmi con il cinema, non so in che modo. E infine mi piacerebbe riuscire a gestire il mio mattissimo calendario. Questi sono i tre punti che metto a sistema per il futuro».
Silvia Calderoni presenterà “Denti di latte” alla Biblioteca Classense di Ravenna il 6 novembre alle 17.30 per la rassegna “Il tempo ritrovato“, poi sarà a Lugo l’8 novembre alla Biblioteca Trisi alle 21.