Camilla Cimatti è nata a Ravenna, ma da qualche anno vive in zone di crisi umanitaria, cioè dove c’è una guerra, povertà o dove mancano i diritti fondamentali, per progettare e coordinare gli aiuti. È un’operatrice umanitaria e, a 31 anni, ha lavorato per la Croce Rossa Britannica, la Caritas Svizzera, l’ONU e altre organizzazioni non governative, in Libano, Giordania, Siria, Sud Sudan e in altri Paesi. Negli ultimi due anni è stata in Ucraina, ora resterà qualche mese a Ravenna, poi la sua prossima meta sarà verosimilmente Gaza.
Al contrario di quello che molti credono, nel settore umanitario non ci sono solo volontari, ma figure professionali con formazione specifica che devono garantire un livello di servizio. Camilla Cimatti è una di queste: conosciamola.
Cimatti, qual è stata la sua ultima missione?
«Dall’agosto del 2022 ho lavorato per l’Ucraina, prima dalla Polonia, poi ho fatto l’ultimo anno a Kiev fino a marzo del 2024, quando sono tornata a Ravenna. Ho coordinato un team che si occupava di individuare i bisogni più urgenti, capire dove intervenire e su quali ambiti, lavorando a stretto contatto con le organizzazioni locali. Principalmente ci siamo occupati dell’accompagnamento sociale e del supporto medico agli anziani, perché molti di loro sono stati separati dalle famiglie durante la guerra e sono isolati. Oppure si trovano persone di 90 anni accudite dai figli di 70, entrambi con problemi di salute. Il nostro obiettivo era definire un modello di intervento che andasse bene per tutta l’Ucraina, senza disparità».
C’è qualche storia che l’ha colpita in modo particolare in Ucraina?
«Nel 2022 sono stata in un paesino che era stato occupato durante l’avanzata russa, nella zona di Kherson, dove i due eserciti si erano bombardati per mesi, fino alla ritirata dei russi. Quando siamo arrivati era distrutto e c’erano soltanto un paio di famiglie appena tornate. Trattandosi di agricoltori, ci avevano detto “O riusciamo a piantare il raccolto per l’anno prossimo o il villaggio muore”. I campi peraltro erano pieni di mine, perciò i contadini hanno fatto una colletta per comprare dei metal detector, in modo da trovare le mine e disinnescarle. Tutto questo guardando dei tutorial su YouTube».
Si ricorda di qualcuno in particolare?
«Sì, in una delle famiglie che abbiamo incontrato appunto c’era il padre che andava con il metal detector per salvare i suoi campi. Aveva un bambino di circa 8 anni che era l’unico del villaggio. Solo lui era tornato mentre le altre famiglie con bambini erano ancora sfollate. Questo bimbo allora aveva fatto amicizia con tutti i cani e i gatti randagi del paesino: gli dava da mangiare e per passarsi il tempo imparava i nomi di tutti i pezzi di armamenti che trovava. A 8 anni sapeva tutti i nomi delle armi usate dai due eserciti. Poi, per fortuna, ci sono anche delle storie più positive. Ad esempio, molte persone che inizialmente chiedono gli aiuti, poi diventano volontari e iniziano a lavorare per le associazioni».
Dev’essere stata un’esperienza molto forte. Ci racconti qualcosa in più del suo lavoro…
«Io generalmente non lavoro in prima linea, ma nella gestione e nella definizione dei programmi di risposta umanitaria. Ad esempio, per arrivare a distribuire una scatola di cibo in una zona ci deve essere qualcuno che chiede i fondi, studia qual è il cibo più appropriato per bambini, madri o anziani, quello che permette di contenere i costi, come trasportarlo dal punto A al punto B e come mettersi in contatto con le comunità locali per distribuirlo. Ma prima ancora bisogna definire, ad esempio, se è meglio distribuire cibo, articoli non alimentari o aiuti economici. Ecco io mi occupo di tutto questo».
Come è arrivata a fare questo lavoro?
«Fondamentalmente ci sono arrivata per caso. Volevo fare la giornalista in Medio Oriente, quindi ho studiato l’Arabo. Dopo la laurea volevo perfezionarmi con la lingua, così ho preso un anno di pausa e sono andata a Beirut, in Libano. Qui ho iniziato a fare la volontaria per un’organizzazione non governativa che si occupava di donne marginalizzate e mi sono innamorata del settore. Ho scoperto che era un vero e proprio lavoro, così ho fatto un Master a Londra in Sviluppo e risposta umanitaria. E da lì ho iniziato a lavorare».
Come iniziare per avvicinarsi al mondo degli aiuti umanitari?
«Credo che il modo migliore per iniziare sia partire facendo volontariato nelle associazioni locali del luogo in cui si vive, ad esempio con la Protezione Civile o simili. Inoltre, posso dire come secondo me non ci si dovrebbe approcciare. Ci sono un po’ di organizzazioni che si offrono di portare le persone a fare volontariato ad esempio negli orfanotrofi in zone marginalizzate dell’Africa a pagamento. Quello si chiama volontourism, cioè turismo del volontariato, e parte dall’idea che le persone che hanno bisogno sono sempre quelle del sud globale. Quello secondo me è il modo sbagliato: perché questo settore non è basato su carità o beneficienza, ma sui diritti umani».
Quali sono delle caratteristiche fondamentali per lavorare in questo settore?
«Sicuramente bisogna essere flessibili, accettare che ogni 18-24 mesi si cambierà progetto, Paese, ma anche bar sotto casa, supermercato dove fare la spesa, palestra e amici. La mia vita ad esempio pesa 120 kg e sta dentro alle valigie che mi porto in ogni trasferimento da un Paese all’altro. Un’altra cosa fondamentale è capire che ci sono molti fattori fuori dal nostro controllo, a partire da dove vivi e cosa mangi».
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