La Ravenna di Marziale e l’oste disonesto

L’arrivo a Ravenna del poeta fu lo spunto per alcuni epigrammi scherzosi che ritraggono una città animata e ben vissuta ma alle prese con “l’elemento acqua”.

Marco Valerio Marziale, poeta romano considerato il più importante anagrammista in lingua latina, nutriva una sorta di risentimento verso la vita in generale e aveva la brutta abitudine di non trovare mai la propria dimensione. Mai un luogo dell’anima. I suoi epigrammi tuonano anche contro i genitori “sciocchi” che lo fecero istruire e divenire un retore. Ma di oratoria non ne volle mai sapere e si votò a una poesia epigrammatica, rapida, fulminea e lapidaria che coglie i vizi, i difetti e penetra nel realismo più crudo senza perdere la bonarietà e la leggerezza del verso. 

Poco più che ventenne, nel 64 d.c., si avventurò nella grande capitale lasciando la sua Bilbilis, una terra di paesaggi spettacolari, fiumi e gole profonde dove l’acqua sgorgava abbondante e fredda da temprare le armi grazie al fiume Salone che scorreva ai piedi della montagna dove ora sorge Cerro de Bambola nei pressi di Calatayud. 

Gli Spagnoli godevano a Roma di buona fama, erano un gruppo che contava e Marziale seppe avvelarsi delle loro amicizie fino alla congiura dei Pisoni i cui membri erano per lo più amici suoi. L’appoggio su cui poteva contare diventò ben presto un ostacolo e cambiò punto di riferimento: divenne “cliens”, un “galoppino” al servizio dei potenti. Riuscì a ottenere, anche legandosi alla dinastia Flavia, un appartamento al Quirinale che apostrofa come un “bugigattolo” al terzo piano in cui non riusciva neppure a dormire per il frastuono. 

Marziale alla scoperta di Ravenna e del suo territorio

Dopo la morte di Tito, con l’ascesa di Domiziano – circa nell’86 – insoddisfatto della sua produzione di epigrammi, se ne andò per alcuni mesi, ospite di alcuni amici nella Cisalpina e precisamente al “Forum Cornelii” ossia a Imola e da qui probabilmente in più occasioni venne a Ravenna come attestano due epigrammi del terzo libro. 

Il paesaggio ravennate, seguendo la narrazione di Strabone del I sec a.C. gli appariva una superficie liquida intervallata da cordoni sabbiosi dove l’acqua marina entrava fino a confondersi con la laguna retrostante: un luogo in cui l’occhio fin dove arrivava, vedeva paludi acquitrinose e in lontananza l’azzurro della marina che rendeva salubre l’aria. Strabone attesta come anche i gladiatori venissero qui nutriti ed esercitati per la salubrità marina che affrancava la città dalla sua patologica condizione lagunare. 

Lo stesso Plinio nella “Naturalis Historia” descrive come il Po si diramasse da Altino a Ravenna in fiumi, rivoli, fosse e cita espressamente la Fossa Augusta che attraversava quest’ultima a collegamento del porto ravennate. Quella che Marziale vide era una città portuale, fittamente abitata da una “popolazione” varia, soprattutto orientale che prestava servizio nella flotta ma anche intraprendeva piccole attività di logistica per il porto: una città che potremmo definire “levantina”, una porta d’Oriente che già ne proiettava la sua vicenda futura come capitale d’Esarcato.

Marziale vide quel faro, quella “torre” di cui parla Plinio a indicazione dei bassi fondali che avrebbero trascinato la flotta nelle secche. Plinio, da bravo naturalista, non dimentica di segnalare che l’entroterra era comunque terra buona per la vite e le nebbie e l’aria salmastra favorivano l’ingrossamento dell’uva “spionia” che hanno erroneamente identificato col nebbiolo piemontese. Erano le piogge autunnali e la fitta nebbia che portavano a maturazione l’uva. 

Acqua e vino ravennate negli epigrammi 56 e 57 del terzo libro di Marziale

Proprio di vino e di acqua parla Marziale negli epigrammi 56 e 57 del terzo libro e con spirito di osservazione e una certa ironia furbesca in prima persona si dichiara ben disposto ad avere un pozzo piuttosto che un vigneto a Ravenna: una cisterna di acqua buona che in grande quantità scorreva nella sua Bilbilis, gli avrebbe reso di più che una vigna nonostante la propensione a bere degli avventori nella zona portuale. 

Marziale si fermò in una “caupona”, aperta verso la strada, una sorta di ostello, locanda a buon mercato, come si deduce dal termine “copo” cioè oste, albergatore: qui si vendevano pasti e vino con una bella insegna in mostra dipinta sulla facciata o su tavole di legno appese. In una “caupona” a Ravenna nel cuore della città vicino alle altre “tabernae” o al porto avrà incontrato l’oste furbo che nonostante la richiesta di vino annacquato, propinò a Marziale un buon vino schietto. L’acqua era preziosissima e il vino la sostituiva completamente in una sorta di ribaltamento della realtà come in un mondo alla rovescia, una cuccagna ribaltata. 

Solo l’acquedotto costruito da Traiano portò l’acqua in città ma bastarono l’incuria degli ultimi imperatori e la presa di potere di Odoacre per ripiombare nell’arsura. Sidonio Apollinare nel 467 in una lettera all’amico Candidiano descrive Ravenna “come una vera e propria palude dove tutte le forme di vita vanno al contrario: i muri crollano e le acqua stanno, le torri scorrono giù e le navi si piantano fisse, i ladri vegliano e i magistrati dormono, i morti galleggiano sull’acqua e i vivi muoiono di sete… Una città che può avere un territorio ma che non si può dire abbia terra”.


Maria Grazia Lenzi

Diplomatasi nel 1978 al Liceo Classico Dante Alighieri di Ravenna, si è laureata in Lingua e Letteratura Latina presso l’Ateneo bolognese nel 1985. Laureatasi anche in Lingue Moderne e Conservazione dei Beni culturali, oltre a inglese, francese e spagnolo, ha approfondito l’arabo con il corso triennale presso l’IsiAO, conseguendo il diploma nel 2009. Quasi contemporaneamente si è dedicata ad un corso di perfezionamento sull’organizzazione della città storica, del territorio e dei loro modelli di rappresentazione presso la Scuola Superiore di Bologna.

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