Mette insieme tre artisti di generazioni diverse, come Renata Boero, classe 1936, Valentina D’Accardi, 1985, e Alessandro Roma, 1977, la mostra “Anemoni” che si inaugura sabato 7 ottobre alle 11, alla Fondazione Sabe per l’Arte di Ravenna. A riuscire nell’intento è la curatrice Irene Biolchini, storica dell’arte che insegna al Dipartimento di Arti Digitali dell’Università di Malta e dal 2012 è anche curatrice ospite per il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza. È lei a svelare qualcosa in più sulla mostra, inserita nel ricco programma di “Ravenna Mosaico – VIII Biennale di Mosaico Contemporaneo”, con il patrocinio del Comune di Ravenna e del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, che resterà aperta al pubblico fino al 16 dicembre.
Biolchini, una curiosità: come nasce il titolo che chiaramente omaggia i fiori simbolo di caducità e fragilità?
«Abbiamo tratto ispirazione dalla tradizione del mosaico ravennate dove i fiori hanno sempre avuto un ruolo simbolico. Nell’ex capitale bizantina sono raffigurati come una croce e alludono alla rinascita, reinterpretazione dell’uso farmacologico e cicatrizzante che ne facevano i latini. In questo risiede anche il legame con la Biennale di Mosaico, come una visione dell’arte come cura, amore e rigenerazione, che precede l’aspetto religioso in sé».
Per la prima volta in mostra, insieme, tre artisti come Boero, D’Accardi e Roma. Cosa li tiene insieme?
«L’intento è di mostrare tre punti di vista diversi, tre generazioni a confronto, con differenti approcci creativi, che riflettono sul rapporto tra natura, decorazione e frammento. Nel complesso, la mostra è un percorso di rinascita, di cura dei traumi e di rapporto con le forze naturali che però non sono solo idillio ma anche portatrici di distruzione».
Partendo dalla genovese Boero, cosa porterà alla Fondazione Sabe?
«Una sola grande opera, “Cromogramma”, realizzata immergendo la tela in infusi di pigmenti naturali. Le molteplici piegature che danno vita all’opera generano una griglia, o una sequenza di tasselli di colore. La sua non è la rappresentazione della natura, ma la manifestazione rituale magico-mitico che ha generato l’opera. L’artista ha dato il via a questo tipo di lavoro negli anni Sessanta. Dopo aver collaborato con Caterina Marcenaro, le è venuta l’idea che la tela – per dialogare con lo spazio – debba essere libera dal telaio, iniziando così un appassionante lavoro di documentazione sulle sostanze naturali».
Poi c’è la bolognese D’Accardi che si propone con diverse opere…
«Sì, anzitutto con cinque opere della serie “Abissi” dove, attraverso una sequenza di piante domestiche realizzate dal 2020 in poi, si celebra lo stesso rituale magico-mitico ma tra le pareti di casa. In linea con il suo percorso, porterà in mostra anche un paio di immagini e un video realizzato quest’estate nei territori colpiti dall’alluvione. Un lavoro che dialoga con quello del milanese Roma».
Roma, fa dunque una citazione degli eventi disastrosi degli ultimi mesi?
«Sì e lo fa con una successione di piatti in ceramica in cui il soggetto perde i contorni del dato naturale per diventare presenza e salvezza. Si tratta degli unici manufatti che si sono salvati dall’alluvione di maggio scorso, galleggiando all’interno del laboratorio di Ceramiche Lega, fortemente colpito. Sono poi stati lavati a mano dai volontari, restituendo il senso della comunità e di comunione con la natura».
Come le è venuta l’idea di mettere insieme proprio questi tre artisti? Già li conosceva?
«Ho subito pensato a loro nel momento in cui ho immaginato una mostra che parlasse del prendersi cura, della dimensione collettiva. Con Renata ci siamo conosciute al Made in Filanda in Toscana, un luogo magico, e il nostro rapporto è proseguito nel tempo. Con Valentina ho già avuto modo di collaborare in occasione di due mostre al Museo delle Ceramiche di Faenza, mentre con Alessandro abbiamo condiviso un progetto complesso nel 2018. Ci accomuna una visione d’insieme: arte e vita vanno a braccetto insieme, sempre. Il nostro è un dialogo continuo che a volte si concretizza in un progetto, altre volte è ‘solo’ una sopravvivenza alla quotidianità».
La sfida di metterli insieme è ‘vinta’?
«Spero di sì. L’intento è stato quello di farli dialogare su una stessa tematica, da qui la continuità, ma con tecniche diverse – dalla pittura alle ceramiche, dalle foto ai video – e da qui la discontinuità. Accostare media molto diversi per raccontare il tassello che costruisce una visione d’insieme».
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