«La Balice è stata ingiustamente dimenticata per troppo tempo – spiega Tomassoni, curatore della mostra –. Basti pensare che la sua ultima apparizione risale alla Quadriennale di Roma del 1999. Ed è questo che mi ha spinto a scrivere una monografia dopo averla incontrata a Milano, dove sono rimasto profondamente colpito dalla quantità e qualità delle sue opere, soprattutto sculture ma non solo, perché lei era anche un’ottima pittrice. Il primo incontro in realtà risale al 1969, a una mostra alla galleria dei Fiori di Firenze. Poi ci siamo rivisti al Centro Rizzoli di Milano nel 1974 in occasione della presentazione della monografia di Guido Montana. Per lungo tempo ci siamo persi di vista, finché è stata lei a contattarmi quattro anni fa e a invitarmi a visitare il suo atelier».
Nata a Napoli nel 1931, Balice si è trasferita a Milano negli anni Cinquanta dove ha tenuto la sua prima mostra alla Galleria Numero. La sua produzione è ricca, complessa, coerente, rigorosa e soprattutto distante dall’arte programmata e ‘aperta’ degli anni Sessanta e Settanta. «La sua è una personalità forte e decisa – commenta Tomassoni –, e grazie a questo è riuscita a costruirsi una carriera autonoma e uno stile molto originale in un momento in cui era difficile emergere se non si era inseriti in un gruppo artistico. Il più noto era il Gruppo T a Milano, ma c’era anche il gruppo N a Padova. Si caratterizzavano per una medesima poetica per avere un esito collettivo e non individuale, al punto da considerare le opere ‘aperte’, persino anonime. Ecco lei è riuscita a farsi strada anche senza aver praticamente rapporti con questi altri artisti, osannati dalla critica e dalle gallerie. Le sue opere sono ‘chiuse’ e indubbiamente contraddistinte dalla sua firma».
La geometria è la ‘cifra’ distintiva del suo lavoro, è l’elemento costitutivo di tutto il suo lungo percorso artistico, dal periodo giovanile sino alla maturità. «Si può quasi dire che lei abbia una capacità ipnotica di farsi guidare dal demone della geometria», rivela Tomassoni. Per lei è quasi un’ossessione, un dispositivo attraverso cui costruisce il suo mondo in modo individuale. La Balice usa lo spazio come se fosse una forma, oltre che ovviamente a dare forma alle sue opere. «La sua – conclude Tomassoni – è un’arte di contrazione, ‘concentrativa’ dei significati dell’arte, fatta di oggetti intransitivi, autosufficienti e mai metaforici. Il suo è uno stile minimale, razionale, estremamente razionale, come si riflette anche nella produzione di piccoli oggetti quotidiani come zuccheriere, portalettere e portaoggetti che ormai fanno parte della storia del design italiano».
Ha partecipato all’incontro, oltre a diversi artisti e critici d’arte, anche l’assessore comunale alla Cultura. «Sono molto felice e orgoglioso – afferma Fabio Sbaraglia – di una realtà come questa che aiuta a valorizzare l’arte. Luoghi come la Fondazione Sabe vivono non solo di progettualità ma anche del fare comunità. Noi vi accompagneremo in questo percorso».