Luca Barberini: quando il mosaico diventa pop

Luca Barberini racconta la sua arte e la sua nuova mostra Oceandipity

Luca Barberini non si sente sminuito quando la sua arte viene definita pop, anzi. Se per alcuni il mosaico è ricerca formale, materia e colore, lui attraverso il mosaico veicola messaggi che arrivano chiari e puntano al sociale.

Nato a Ravenna nel 1981, si forma artisticamente nel contesto di una città che deve al mosaico paleocristiano e bizantino gran parte della sua fama nel mondo e di questo contesto ne raccoglie e ne trasforma l’eredità.

Diplomatosi presso l’Istituto Statale d’Arte Gino Severini, prosegue il suo percorso formativo con esperienze sul campo e fonda con sua moglie Arianna Gallo lo studio Koko Mosaico.

Collabora negli anni con artisti come Domingo Zapata, Ale Giorgini, Gianluca Costantini, Valerio Adami, Olimpia Zagnoli, ma al contempo sviluppa una personale ricerca artistica attraverso un universo immaginifico che lo porta a forzare i limiti della tecnica del mosaico. Manifesto del suo stile è l’opera Folla, acquisita nel 2011 dal Museo d’Arte della Città di Ravenna.

Nel corso degli ultimi anni ha presentato i suoi lavori in mostre collettive e personali in ambito nazionale e internazionale toccando diverse città tra cui Roma, Venezia, Dallas e Tokyo. Il Giappone è stato il paese che ha visto una delle sue partecipazioni più recenti quando nel 2021 Luca Barberini ha tenuto le mostre al Musashino City Kichijoji Art Museum di Tokyo e al Backs Gazai Art Gallery di Kyoto, insieme all’amico e artista Takahiro Watanabe. A Ravenna in questi giorni ha inaugurato a Palazzo Rasponi dalle Teste Oceandipity, una mostra – visitabile fino al 5 giugno – che attraverso 14 opere vuole sensibilizzare il pubblico sul dramma – e da qui il suffisso “dipity” che significa pietà, del cambiamento climatico. Abbiamo quindi colto l’occasione per conoscere meglio il suo lavoro e il suo percorso artistico.

La parola mosaicista racchiude più visioni, artigiano e artista del mosaico, spesso non comprese fino in fondo. È stato difficile intraprendere questa strada artistica e lavorativa?

«Non è stato difficile perché, appunto, la parola comprende sia l’artigiano e sia l’artista e si possono fare entrambi, ma nel momento in cui riesci a distinguerti e a creare una tua forma espressiva ci si può inserire nel settore dell’arte contemporanea, che nel mosaico è una nicchia ristretta. Nel mio caso ho individuato uno stile unico e distintivo che mi ha aperto la strada».

Ti dividi tra il tuo laboratorio Koko Mosaico, che gestisci con tua moglie Arianna Gallo con cui condividi lavoro e vita, e la tua arte. Come è nata e si è sviluppata la tua personale ricerca espressiva attraverso la tecnica del mosaico?

«Arianna ed io abbiamo aperto il nostro laboratorio di mosaico 17 anni fa improntato come un classico laboratorio artistico e artigianale con riproduzioni di mosaici antichi, ma anche con la realizzazione di progetti di artisti. Fin dall’inizio ho però fatto una ricerca personale e ho unito l’utile, il mio lavoro da mosaicista, al dilettevole, la mia passione per la fotografia. Ho utilizzato i materiali per aiutarmi in questa mia ricerca personale che è nata nel 2008 e che mi ha portato a distaccarmi dall’attività classica del laboratorio. Ho quindi il mio studio all’interno di Koko Mosaico dove mi occupo delle mie opere, mentre Arianna si occupa del laboratorio e dei corsi che vengono organizzati».

Da tutto il mondo vengono ad ammirare i mosaici nelle basiliche ravennati eppure il mosaico viene ancora considerato un’arte minore. Da cosa dipende e come poter rendergli giustizia?

«È un concetto ormai superato. È vero, per molti anni non è stato contemplato, ma da alcuni anni il mosaico non è più considerato un’arte minore come un tempo quando non aveva ancora fatto lo “step” a differenza della ceramica, del tessile o della fotografia. Alla Biennale di Venezia, ad esempio, tre artisti attualmente espongono le loro opere musive in padiglioni diversi, ma anche Damien Hirst e le sue opere con gli insetti e Chuck Close con i ritratti scomposti sono emblematici di questo cambiamento. Nella pubblicazione Skullture, edita da 24 Ore Cultura, che tratta il teschio nella cultura contemporanea e raggruppa 50 artisti internazionali, sotto la mia opera nella didascalia c’è scritto mosaico, cosa impensabile anni fa dove avrebbero scritto definizioni tipo “tecnica mista con malta” o “altissimo artigianato”. Molti oggi non considerano più il mio lavoro mosaico perché non uso più la tessera, ma resta il fatto che il gesto che vado a fare è quello del mosaicista. Sono stato invitato a tenere un workshop di una settimana a fine maggio alla Scuola Mosaicisti del Friuli dove stanno realizzando una collezione di opere della scuola con vari artisti, ma all’inizio c’è stata qualche riluttanza. La cosa comunque non mi dispiace perché significa che sto facendo qualcosa di diverso».

In questi giorni hai inaugurato la mostra Oceandipity al Palazzo Rasponi dalle Teste in occasione dell’European Maritime Day. Ancora una volta la tua arte veicola un messaggio importante. Puoi raccontarci meglio?

«L’invito arrivato per la mostra era perfetto perché avevo già affrontato il tema del mare con alcune opere. Nel 2015 ho realizzato Way Out dove si vede un’imbarcazione piena di scheletri trasportati da un essere umano, trattando così l’immigrazione in un gesto estremo. Inoltre avevo già nelle mie corde la ricerca del mare anche dal punto di vista sociale. Grazie a Maria Grazia Marini e agli assessori Costantini e Sbaraglia abbiamo pensato di organizzare questa mostra e ho completato la mia ricerca trattando temi come l’innalzamento delle acque dovuto al cambiamento climatico realizzando nuove opere ad hoc. All’inizio il Palazzo Rasponi dalle Teste mi sembrava troppo imponente, ma ho creato delle pareti, invece che porre le opere sul classico cavalletto da mosaicista, e sono soddisfatto del risultato. Il messaggio nella mia arte è molto chiaro, molto leggibile. Sono opere pop dove tratto il mare come punto sociale di unione, di speranza fino al mare che invece diventa il mondo che si rivolta al genere umano, dove la gente è costretta a coltivare gli alberi da frutto sulle barche perché non c’è più terra da usare, tutto è stato sommerso».

Come vedi il futuro dell’arte musiva e dei mosaicisti a Ravenna e in particolare il tuo futuro?

«Vedo il futuro dell’arte musiva roseo. Ci sono tutti i buoni presupposti per produrre nel campo musivo a 360°: dall’artigianato, all’industriale, all’esperenziale. La città di Ravenna ha la possibilità di sfruttare i laboratori, il turismo con i monumenti, ma c’è anche l’industria. Il nostro laboratorio ha sempre visto un crescendo. Nel nostro settore non c’è tanta competizione e non trovo note negative. Il mosaico non è morto. Ci sono tante possibilità, come specializzarsi nel design ad esempio. Con il nostro laboratorio cerchiamo di stare sulla cresta dell’onda, di migliorarci e fare qualcosa di nuovo, senza avere per forza l’ambizione di dover essere i primi. Continueremo sempre a fare copie di mosaici antichi, ma anche nuove lavorazioni. Io vado sempre avanti con la mia ricerca e spesso a livello artistico le cose avvengono anche senza volerlo. Come nel caso della mia nuova opera Iceberg che mi sta stimolando a creare una mostra solo su quel tema, come è successo per i mosaici con le piante carnivore».

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