08 Mar 2022 21:21 - Interviste
Marco Martinelli: il teatro senza piedistalli
Marco Martinelli, una lunga carriera come drammaturgo e regista, ripercorre alcuni momenti salienti della sua storia e racconta i progetti futuri.
di Cristiana Zama
La recente inaugurazione del Teatro Rasi, dopo i lavori di ristrutturazione, offre l’occasione per un’intervista a Marco Martinelli che ne è anima e guida. Qui ha sede il Teatro delle Albe, compagnia di cui è drammaturgo e regista, fondata nel 1983 insieme a Ermanna Montanari, attrice e sua compagna di vita che ha sposato appena ventunenne, Luigi Dadina e Marcella Nonni. Direttore artistico di Ravenna Teatro, ha alle spalle una lunga carriera costellata da soddisfazioni, premi e riconoscimenti tra cui il plurimo Premio Ubu, considerato il più importante di teatro in Italia.
Dal 1986 Martinelli ha pubblicato i suoi testi teatrali per numerose case editrici e dal 1991 è anche fondatore, insieme a Maurizio Lupinelli, della non-scuola, esperienza teatrale all’interno delle scuole superiori di Ravenna che coinvolge ogni anno oltre 400 giovani, esportata in tutta Italia e nel mondo e raccontata anche nel libro “Aristofane a Scampia. Come far amare i classici agli adolescenti con la non-scuola“. Tradotto in francese, nel 2021 ha vinto il Prix de la Critique come “miglior libro sul teatro”.
Nel 2017 Martinelli debutta nel campo cinematografico con il film “Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi“, soggetto cofirmato con Ermanna che ne è anche protagonista, cui segue nel 2019 “The sky over Kibera” che racconta la “messa in vita” della Divina Commedia nell’immenso slum nel cuore di Nairobi con 150 bambini e adolescenti delle scuole locali. Dal 25 marzo esce in sala il film “fedeli d’Amore“, soggetto sempre cofirmato da Ermanna, che la vede tra i protagonisti insieme a numerosi cittadini ravennati, trasposizione cinematografica della sostanza sonora dell’omonimo spettacolo.
Arte e vita come un tutt’uno. Una passione innata per il teatro e che ardentemente è esplosa in gioventù. Raccontaci gli esordi.
«Gli esordi sono nell’adolescenza, o forse anche prima, nella passione per il racconto che mi ha trasmesso mio padre Vincenzo quando ero poco più che un bambino. Il debutto a teatro avvenne nel 1977 nell’allora Mini-cine San Rocco, un minuscolo palchetto di quattro metri per tre, con Aspettando Godot di Samuel Beckett.
Ci eravamo appena sposati, io e Ermanna, e avevamo la sfrontatezza di voler vivere di teatro a Ravenna, senza emigrare a far provini a Roma o Milano. Ci fidavamo di noi e dei nostri errori: quelli sarebbero stati i nostri maestri. Ci guidavano l’amore reciproco e la passione per l’arte e la bellezza».
Una visione dell’arte condivisa. Prima con Ermanna, poi con le persone. Tutte. Ci spieghi meglio?
«Perché la bellezza non ha senso se non è con-divisa. Se non è un turbamento che ci travolge, insieme. Come coppia, come comunità, come mondo. È una sonda gettata nel mistero del nostro “essere” creature su questa terra. E parlo della bellezza che stringe insieme, in un nodo che non si deve sciogliere, il bello e il vero e il giusto, come sapevano gli antichi greci.
E anche quando sprofondi nella lettura della Commedia, quando resti attonito davanti a un quadro di Caravaggio, non è mai un “fatto” individuale che ti accade: è sempre una percezione con-divisa. Ci sei tu, ci sono Dante e Caravaggio, ci sono tutte le generazioni che nei secoli hanno letto e ammirato e commentato Dante e Caravaggio. Io sono noi, dice un proverbio africano: in quelle tre parole c’è il segreto della bellezza».
La tua visione del teatro non ti pone su un piedistallo, ma ti fa scendere tra le persone, a cominciare dai giovani. Il progetto della non – scuola, partito da Ravenna ben 30 anni fa, ha viaggiato tra tante realtà italiane e estere. Cosa lo anima?
«Abbasso tutti i piedistalli! Non hanno alcun senso. Sono l’inizio delle ingiustizie, delle rivalità, delle violenze. Che bello stare tra le persone! Che bello, e quanto è “vero”, sentirsi creatura tra le creature! Certo, io so cose che gli adolescenti non sanno, ma loro ne sanno altrettante che io non so.
Da qui nasce la non-scuola. Che significa “scuola per tutti”: che siano guide e adolescenti, tutti abbiamo da imparare, perché questo è la vita, un oceano sconfinato che non si smette mai di abbracciare, fino all’ultimo respiro. E questo abbraccio, nella non-scuola, avviene nel gioco, nel saltello, nel canto. Nell’allegrezza».
Nel futuro c’è la rappresentazione dell’opera completa. Molti, soprattutto a Ravenna, hanno attraversato la pandemia con questa speranza. E poi cos’altro?
«Intanto quest’estate faremo il Paradiso. La trilogia intera la rimandiamo a un tempo definitivamente fuori dalla pestilenza, perché, se ben ci ricordiamo l’Inferno del 2017, era fondato sul più puro “assembramento”, sulle zuffe tra avari e prodighi, lo scatenamento dionisiaco delle Arpie, l’enigmatica nudità del Flegetonte, il via vai dei diavoli, le danze nella tempesta degli adolescenti Paolo e Francesca, lo strisciare a terra dei ladri-serpenti: non sarebbero ripetibili. Quindi, per ora, il Paradiso, la terza cantica che chiuderà (per ora…) il percorso iniziato con Ravenna Festival nel 2017. E che sia una festa per “tutti” – parola sacra, diceva Aldo Capitini – i ravennati».