Il reporter Fausto Biloslavo: «Sono fortemente colpito dalla resistenza dei giovani ucraini»

Il giornalista triestino presenta il suo ultimo libro “Ucraina. Nell’inferno dell’ultima guerra in Europa”, martedì 6 giugno alle 18.30, al Salone dei Mosaici di Ravenna.

Da quattro decenni il reporter triestino Fausto Biloslavo racconta le guerre scoppiate nel mondo, dall’Afganistan all’Estremo Oriente, dall’Africa ai Balcani. Ha rischiato varie volte la vita, è stato incarcerato, ha visto morire civili e soldati, cercando ogni volta di portare alla luce gli orrori e di dare voce ai protagonisti, piccolo o grandi che siano, dei conflitti più cruenti. L’ultimo in ordine di tempo è quello più vicino a casa, di cui ha parlato nel suo ultimo libro ‘Ucraina. Nell’inferno dell’ultima guerra d’Europa’, edito da Sign Book e curato da Matteo Carnieletto. Per saperne di più, da non perdere l’incontro con l’autore – a cura di Tessere del Novecento – in programma martedì 6 giugno alle 18.30, al Salone dei Mosaici di Ravenna.

Seguirà un aperitivo solidale il cui ricavato sarà donato all’associazione Sold.Id Onlus, i cui volontari si sono attivati fin dalle prime ore dell’alluvione. Biloslavo, cosa c’è da aspettarsi per l’estate in Ucraina? 

«Il mio timore è che dovremo prepararci a un’estate di guerra ancora più massiccia e dopo, forse, si riuscirà a cominciare a parlare di una via d’uscita negoziale. Proprio in questi giorni il presidente Zelensky ha dichiarato che il Paese è pronto per la controffensiva». 

Quali sono le prime cose che le vengono in mente su questa guerra? l’ha colpita maggiormente nel corso della sua esperienza sul campo? Chi o cosa l’ha colpita maggiormente? Può raccontare un paio di episodi?

«Ci tengo a dire, prima di tutto, che avrei voluto non doverla mai raccontare questa guerra perché è nel cuore dell’Europa, di tipo convenzionale e ad altissima intensità, con un uso pesante di armi pesanti. È una guerra fra eserciti, di cui uno legato a una super potenza come la Russia che però ha dimostrato di essere un gigante dai piedi d’argilla».

Cosa l’ha colpita maggiormente? 

«Premesso che, come tutti, mi aspettavo all’inizio che la Russia entrasse in Ucraina come il coltello nel burro nel giro di un mese, sono rimasto molto colpito dalla resistenza degli ucraini, dei ragazzi che tiravano su le barricate e hanno imparato a crederci e a organizzarsi, come già hanno fatto i coetanei di Budapest nel 1956 ea di Praga nel 1968. Non era scontato che accadesse».

Com’è ora il morale degli ucraini? 

«Il morale è sempre alto soprattutto quando si parla con i giornalisti. Poi però la presa di Bakhmut da parte dei russi, tra fine febbraio inizi marzo quando ero in Ucraina, è stata drammatica. Quindi il morale non può essere altissimo, i giovani continuano ad arruolarsi, ma c’è anche chi li sprona a farlo. Una parte del paese non esiste più da un punto di vista economico e lavorativo, solo da Kiev a ovest è più tranquillo. Ricordo che all’inizio i giovani della capitale mi chiedevano quanto sarebbe durata la guerra: “Qualche settimana, qualche mese? Ma a Sarajevo, dove ho assistito all’assedio, è andava avanti per tre anni…». 

Si impara a convivere con la paura quando si frequentano i teatri di guerra? 

«Sì, la paura è una compagna di viaggio, deve sempre esserci. Chi non ha paura, è un pazzo. Ed è anche un importante campanello d’allarme: quando si cominciano a sentire i sibili di granata, allora bisogna solo buttarsi a terra. Così come a un certo punto è bene decidere di rientrare a casa, per non aumentare le probabilità di rimetterci la vita». 

Cosa la spinge da una vita ad andare sul campo, a rischiare così tanto? 

«Bisogna raccontare, testimoniare il lato oscuro dell’umanità che è la guerra. Qualcuno deve pur essere gli occhi della guerra, dei lettori, dei telespettatori, dell’opinione pubblica. » 

La guerra più feroce che ha raccontato e perché? 

«Tante… Per esempio il genocidio in Ruanda nel 1994 quando nel giro di 2-3 mesi furono ammazzate col vil machete quasi un milione di persone. Bastava tirar giù il finestrino dalla jeep con cui giravamo per sentire ovunque l’odore dolciastro della morte e trovare a pochi metri, nella boscaglia, la gente massacrata, compresi bambini, anziani e donne. Ma mi viene in mente anche la guerra nell’ex Jugoslavia, la terribile guerra etnica in Bosnia, ma anche questa in Ucraina non è da meno a causa dell’utilizzo di armi pesanti, e ancora l’inferno della Cecenia, dove fra l’altro sono andato a liberare un collega fotografo del settimanale “Panorama” che era stato rapito. Tutte le guerre sono brutte, sporche e cattive, alcune forse più terribili di altre». 

Lei è stato il primo giornalista italiano a entrare a Kabul liberata dai talebani dopo gli attentati dell’11 settembre e l’ultimo italiano a intervistare Gheddafi durante le rivolte del 2011. Sono state queste le esperienze più forti? 

«Non solo, perché spesso a restare impresse sono piccole ma fondamentali storie. Come quella della bambina vestita di rosso nel 2021 all’aeroporto di Kabul che tentava disperatamente di entrare dal cancello nord, per scappare… Con le sue manine, era riuscita a rompere la rete riuscendo a infilare solo il braccio. Dietro di lei c’erano altri 20 mila di afgani che cercavano di entrare. Mi sentivo impotente perché non poteva fare nulla… I marines, che erano presenti, mi hanno fatto fotografare la scena… Non potrò mai dimenticare il pianto di quella bambina e di sua madre, e di quei 20 mila, che volevano solo scappare da quel regime. Così come mi sono rimaste ben impresse le tante volte che ho rischiato la pelle»

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