È in programma sabato 3 febbraio alle 12 alla Tipo-Litografia Nova Print di Sant’Agata sul Santerno (via Roma 5/b) l’inaugurazione della mostra fotografica “FATA RÒBA – Immagini e parole” a cura di Pier Giorgio Missiroli e Andrea Ghinassi.
La mostra, che rimarrà aperta fino a domenica 11 febbraio, è promossa dagli autori insieme al centro sociale culturale Ca di Cuntadén e con il patrocinio del Comune di Sant’Agata sul Santerno.
Filo conduttore di immagini e parole in esposizione è l’alluvione del maggio 2023 che ha devastato il paese. “Questa mostra fotografica ci riporta a quei giorni – scrivono gli autori -. Non si pone come asettica e distante documentazione di quello che si è perduto ma è un tentativo di riprenderci le nostre cose, se non dal punto di vista materiale almeno da quello simbolico e mnemonico. Non è un requiem, un addio, un eterno riposo agli oggetti persi, ma un percorso di memoria e consapevolezza emotiva, collettiva e individuale. Gli oggetti sono i nostri compagni di vita che, in silenzio, raccontano di noi”.
Tra i modi di dire più usati nel dialetto romagnolo, “Fata ròba” sintetizza, con solo due parole, concetti molto più articolati e complessi della traduzione in “Che roba” o “Che storia”. A seconda del contesto ma, soprattutto, dal tono di voce usato, un romagnolo può esprimere il suo profondo stupore, sorpresa e incredulità verso quello che sta ascoltando, leggendo, toccando, gustando o guardando. In entrambe le accezioni: positiva o negativa.
Ma se è quel “Fata”, espresso con enfasi, che amplifica esponenzialmente lo stupore provato è, invece, la “ròba” che può arrivare a comprendere persino l’infinito universo, materiale e immateriale. L’oggetto che contiene tutti gli oggetti (e i soggetti). Il tutto e il nulla. La potenza della sintesi in solo due parole. Non ultimo, “Fata ròba” è sempre la risposta giusta durante una conversazione, sia che siamo d’accordo o meno con quello che si è ascoltato.
L’alluvione che ha colpito il nostro paese, contenitore della nostra comune cultura, vita sociale e storia, devastando e modificandone la topografia, ha compromesso solo ad un livello superficiale la nostra integrità come individui. Quello che invece ha portato via dalle nostre case, i mobili, i libri, le fotografie, i giochi dei nostri figli, ha inciso profondamente sulle nostre vite. Gli oggetti (la “ròba”) che ci circondano, oltre all’aspetto funzionale, si caricano di un valore immateriale. Raccontano chi siamo, la nostra storia e i nostri ricordi. Sono una rappresentazione esterna della nostra identità.
Lo ripeteremo più volte, ma sappiamo benissimo che non tornerà “tutto com’era prima”. Non tutte le cose andranno al loro posto. Anche se avremo tutte le risposte dal punto di vista economico, sociale, tecnico, idrogeologico e meteorologico, se non cercheremo una rielaborazione emotiva di quanto accaduto, il lavoro non sarà completato.
Questa mostra fotografica ci riporta a quei giorni. Non si pone come asettica e distante documentazione di quello che si è perduto ma è un tentativo di riprenderci le nostre cose, se non dal punto di vista materiale almeno da quello simbolico e mnemonico. Non è un requiem, un addio, un eterno riposo agli oggetti persi, ma un percorso di memoria e consapevolezza emotiva, collettiva e individuale.
Gli oggetti sono i nostri compagni di vita che, in silenzio, raccontano di noi.
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