12 Nov 2022 11:47 - Interviste
Enzo Babini, l’unico italiano a esporre al Pushkin di Mosca. «Uso la scultura per donare amore»
l'amore per l'arte e la scultura
di Roberta Bezzi
«Sì. È un po’ particolare perché non è un’antologica e non ha un filo conduttore o un tema preciso come avviene normalmente. Contiene diversi miei progetti, fra cui quello letterario legato ad alcune formelle della serie sulla “Divina Commedia”, oltre a quello umanitario con opere fatte con terre-zolle prese nei cinque diversi continenti per dare un messaggio di pace e fratellanza. Un allestimento sofferto, alla fine armonioso».Lei fra l’altro è spesso presente alle sue mostre, anche questa una cosa inusuale…
«Sì, questo nasce dal mio passato da insegnante e da una mia convinzione: l’artista deve spiegare le sue creazioni perché è impossibile che il visitatore possa capire in pochi secondi la ricerca di 40-50 anni. Così diventa anche una visita culturale. Nel corso degli anni, mi sono accorto infatti che anche i collezionisti, in realtà tendono a giudicare un’opera dopo uno sguardo veloce, soffermandosi più sull’impatto estetico che sul lavoro sulla materia».Lei è l’unico ad aver fatto i cento canti della “Divina Commedia” a livello scultoreo e proprio con queste opere è arrivato al museo Pushkin di Mosca. Cosa ha provato?
«Sono stato molto fortunato a vivere esperienze che restano impresse nella mente e che sono destinate a lasciare un segno emotivo per sempre. Quando mi sono trovato di fronte a una delle sale di quel celebre museo con i miei cento canti, sono rimasto praticamente muto. Non ero preparato a una mostra così faraonica. Poi ne è seguita una mostra itinerante anche a San Pietroburgo e a Samara. Un’altra esperienza straordinaria è stata quella vissuta in Cina, il Paese più importante delle porcellane».[vc_single_image image=”27587″ img_size=”full”]A Papa Ratzinger ha donato la scultura “Genesi”, nel 2006, in occasione dei festeggiamenti dei 100 anni dei giornali delle Diocesi…
«Sì, è stato il mio modo di ringraziarlo… Ho scelto quest’opera che rappresenta la vita, richiamata con l’uso del melograno. Un frutto che fiorisce in primavera, matura e si spacca e muore in autunno. Nel momento in cui si spacca, il seme entra nel grembo della terra e in primavera origina nuovamente la vita, quindi la genesi, la continuazione perpetua della vita».Com’è nata la sua passione per l’arte?
«In modo casuale. Sono cresciuto a Cotignola in una famiglia di braccianti, nelle case popolari a ridosso del fiume Senio. Ho cominciato a interessarmi di ceramica fin dalla prima media a Faenza, perché facevo i laboratori di ceramica e da lì mi è entrata nel cuore».Fondamentale è stato l’incontro di Luigi Varoli, direttore della scuola Arti e Mestieri e insegnante di Figura all’Accademia di Belle Arti…
«Lui è stato il primo a vedere qualcosa di bello nel mio lavoro e a proporre ai miei genitori di studiare, facendomi una lettera di presentazione per la scuola media a Faenza annessa all’Istituto d’Arte. Al mattino si faceva scuola, al pomeriggio i laboratori. Ho cominciato a ‘pastrocchiare’ la terra, poi sono diventato Maestro d’Arte e ho frequentato la facoltà di Magistero. Devo tutto quello che sono diventato ai grandi maestri che credevano in quello che facevano e trasmettevano dei valori di vita, che mi porterò sempre nel cuore».[vc_single_image image=”27589″ img_size=”full”]A 11 anni per la prima volta ha preso il treno e da lì è iniziata una vita appassionata ma fatta di sacrifici. Com’erano le sue giornate?
«Per i primi anni seguivo solo le lezioni, dai 13 anni – una volta finita la scuola alle cinque del pomeriggio – ho cominciato anche ad andare dal ceramista Ivo Sassi, per un’ora e mezzo tutte le sere per diversi anni. Con quei due soldini che riuscivo a prendere, mi pagavo l’abbonamento. Poi a casa, mangiavo, studiavo e alle 4 della mattina mia madre mi alzava per studiare e poi andare a scuola».Quali altre figure sono state preziose nel suo percorso?
«A scuola sono stato un collaboratore di Biancini, uno scultore puro che mi ha insegnato i volumi, e di Zauli, un tecnico puro sua nella raffinatezza dell’oggetto moderno sia nella tecnica ceramica. Poi ho incontrato Emiliani, un tecnico chimico, laureato in Ingegneria, che mi ha dato certi schemi che applico tuttora. Un altro maestro è stato Giuseppe Liverani, direttore del Museo Internazionale delle Ceramiche e insegnante di storia dell’arte e ceramica».