Borghi, classe 1964, è nata a Macugnaga (Verbania), ma vive e lavora da anni sulle colline del Lago d’Orta. Nel 1990 ha conseguito un master di specializzazione in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, iniziando due anni dopo a esporre usando la fotografia e materiali riciclati. Il suo interesse è principalmente incentrato sull’utilizzo di materiali riciclati, raccolti in aree convenzionalmente ricondotte al mondo femminile e a quello domestico. In questi anni ha esposto in prestigiose istituzioni museali nazionali e internazionali, fra cui la Galleria d’Arte di Bologna, il Musée d’Art Moderne et Contemporaine de Nice, giudecca Art District e Accademia di Belle Arti di Venezia, Parco Arte Vivente di Torino e Castello di Rivoli.Enrica Borghi, com’è iniziato il suo dialogo con la tecnica del mosaico?
«Poco dopo il completamento degli studi. Ho sempre prestato grande attenzione alla materia e alla tridimensionalità. Al mosaico sono arrivata naturalmente perché mi piace elaborare la scultura in modo ripetitivo, e quindi mi incuriosiscono materiali che lo consentono e che, attraverso le differenze cromatiche, permettono una narrazione. Si può dire quindi che, più che un interesse specifico, per me il mosaico rappresenta un modo operativo di intervenire sulle superfici. E questo perché credo che, dalla ripetizione di uno stesso elemento, si possa arrivare a dare una visione del tutto».Il suo è un ritorno a Ravenna. Cosa conosce della città e in quale altra occasione ha esposto?
«Impossibile non conoscere Ravenna con tutte le sue bellezze. Ci ritorno sempre molto volentieri. Dal punto di vista professionale, avevo già avuto modo di esporre una mia opera su invito del Mar nel 2017, nell’ambito della mostra collettiva dedicata alla scultura in mosaico dalle origini a oggi, a cura di Alfonso Panzetta. E proprio il curatore aveva richiesto una “Venere ricoperta di unghie finte” che fa parte di un mio ciclo di statue neoclassiche e busti decorate appunto con unghie finte e piume, decorate con fermagli e bigodini».[vc_single_image image=”23529″ img_size=”full”]Per la mostra alla Fondazione Sabe per l’arte ha scelto cinque installazioni. Ce n’è una a cui è particolarmente legata?
«Mi piace sempre ricordare “Mandala” perché è la più antica. Si tratta di un lavoro storico presentato nel 2000 al GAM – Galleria d’arte moderna di Bologna. Lo avevo pensato come un progetto da riproporre e per l’appunto rimodulare nei vari spazi, per ricordare il decoro dei pavimenti, con una chiara citazione dunque degli elementi decorativi e dei resti di mosaici».La sua è una vera e propria passione per il materiale plastico?
«Sì, è quello che uso maggiormente perché legato al tema degli scarti e dei rifiuti. Mi piacerebbe far capire che ciò che più inquina l’ambiente e che destiniamo alla distruzione, in fondo può essere recuperato e trasformato in qualcosa di prezioso. Può sembrare un paradosso in una città come Ravenna dove è l’oro a impreziosire i mosaici. In “Mandala” ho usato dei semplici tappi delle bottiglie che, sormontati da una goccia di vetro, hanno acquisito luccichio ed eleganza».Per la realizzazione di “Mandala” a Ravenna è stata aiutata da alcune studentesse dell’Accademia di Belle Arti. Com’è andata?
«Sì, per me è ormai una prassi chiedere l’aiuto di studenti o dei dipartimenti didattici. Tutto è filato liscio, le ragazze si sono dimostrate precise e veloci nell’esecuzione, molto motivate. Ho lasciato loro una certa libertà nel costruire il mandala, giocando in modo simmetrico con i vari elementi. Per loro è stata anche l’occasione di entrare nel vivo di un allestimento, una bella esperienza di cui far tesoro».In apertura della mostra, impossibile non restare colpiti dall’immensa “Stola” realizzata con fettucce di cotone colorate… Un altro esempio di trasformazione.
«Sì. In questo caso ho voluto sviluppare il tema della morbidezza. La stola sembra quasi impigliata in un chiodo… Pur richiamandosi alla tradizione tessile, presenta un carattere discreto affine a quello del medium musivo».[vc_single_image image=”23530″ img_size=”full”]Qual è l’oggetto che ha più trasformato nel corso della sua carriera?
«Senza dubbio le bottiglie di plastica, che utilizzo sin dagli anni Novanta. Le ho deformate, forate, assemblate, perché sono versatili e offrono numerose opportunità di trasformazione. Consentono infatti un lavoro pulito e dalla grande resa scultorea. Molto interessante è stato anche un lavoro in collaborazione con un’azienda che produce contenitori di flaconi di colori cangianti, quasi fluorescenti. Mi piace spaziare, prediligendo in genere materiali che consentono infinite possibilità a livello cromatico. Di recente mi hanno proposto un progetto con pelli sintetiche che potrei decidere di sperimentare».
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