«Lo spettacolo ha radici lontane. In questa opera abbiamo deciso mettere in relazione l’arte e la vita e di raccontare come la vita dei luoghi e delle persone diventa, a volte, spettacolo e viceversa. Il nostro obiettivo è fare entrare il pubblico nei meccanismi dello spettacolo e delle arti. Vita e spettacolo sono due cose che si guardano tra di loro e che quando si allacciano creano delle occasioni meravigliose per creare un racconto collettivo, una cosa importante in questo periodo storico in cui la memoria collettiva manca».Perché ritiene che ci sia carenza di memoria collettiva?
«Mi rendo conto che oggi, nonostante ci siano tante possibilità di comunicare, molto spesso a ben guardare ci si limita a scambiare più che informazioni, solo pubblicità. Così ho pensato di dar vita a storie, di raccontarle dal punto di vista degli artisti, in maniera molto cauta, molto intima all’interno di un teatro. L’idea è così piaciuta che tante persone e artisti, anche da fuori città, stanno accorrendo, incuriositi».Secondo lei da cosa dipende questa affluenza di artisti?
«C’è un forte desiderio di raccontare il teatro e l’arte in generale, ma anche di farsi invadere dalle storie delle persone e di creare un luogo per raccontarla. Il teatro diventa un luogo in cui rappresentare fatti memorabili che una volta venivano raccontati nei caffè, nei bar o nelle famiglie, affinché non si perdano. E non è un discorso nostalgico, anzi, secondo me nel cercare questo tipo di contatto tra le persone c’è proprio il futuro. Non ci interessa solo spingere le persone ad andare a vedere uno spettacolo, ma anche amplificare tutto quello che sta intorno all’evento artistico».[vc_single_image image=”27656″ img_size=”full”]Può fare qualche esempio di storie che racconterete in scena?
«Per esempio Felice Del Gaudio, di origine lucana, ha fatto un lavoro meraviglioso mettendo insieme la musica contemporanea con le ninna nanne più antiche della sua terra. Ivano Marescotti, che ha lavorato diverse volte con me, ha realizzato uno spettacolo bellissimo basato sul “Tempo”, ragionando su come adesso si facciano 10mila scatti di una persona che poi non si guardano più. Lui, al contrario, aveva solo sei fotografie di quando è diventato attore, e tutte e sei non le dimenticherà mai. Personalmente sono anche una grande fan delle storie degli artisti: le loro biografie sono spesso racconti di coraggio e di grandi sacrifici. Ma ci sono anche tante persone comuni che conosco a Russi, esemplari, che hanno fatto il loro lavoro con un amore tale da trasformarlo in arte».Quanto è importante la città di Russi per lei e per la sua compagnia?
«Molto. Sono nata qui, poi sono fuggita per fare la scuola di teatro, cominciare a lavorare con tanti artisti e fondare una compagnia. Ma sono tornata in città, su invito di un amico, e da lì è cominciata una storia molto bella, che ha richiesto molte energie, perché abbiamo aperto un laboratorio e creato un movimento di spettacoli ed eventi vari per cui tutti i cittadini si sono attivati per riaprire il teatro comunale, l’ex macello, la chiesa in Albis, il Palazzo San Giacomo che era abbandonato. Abbiamo fatto spettacolo praticamente dappertutto, quindi è diventata una storia molto emozionante, anche se non è raccontata ancora come si deve. Abbiamo provato a farlo col progetto “Archivio vivo”, ma ci vuole tempo e non è così facile».Cosa rappresentano per lei questi progetti?
«Tanti piccoli tasselli per raccontare agli altri un po’ la nostra storia, con il contributo di tutti. Essere affezionati alla storia del proprio luogo, di un luogo che si ritiene di appartenenza, anche se magari non ci si vive continuativamente, significa innamorarsi anche di tutti gli altri luoghi perché si impara a vederne la complessità, le stratificazioni, le differenze, per preservarle».Lei prima ha parlato di “Archivio vivo”. Qual è la storia che più l’ha colpita?
«Mi è difficile fare una classifica, anche perché ne scopro sempre di diverse. E poi anche la vita che sembra più piatta, appena si comincia a entrare con le armi del teatro, della musica, del canto, rivela grandi storie. Sono però particolarmente affezionata alla storia del teatro stesso, chiuso da vent’anni e quindi con tutti i segni del tempo, quando siamo entrati…».[vc_single_image image=”27661″ img_size=”full”]Com’è nata invece l’idea di fondare la compagnia “Le belle Bandiere”?
«Grazie agli stimoli del grandissimo Leo de Berardinis con cui ho cominciato a lavorare nei più grandi teatri nazionali appena uscita dalla scuola. Lui ci ha aiutato sempre di più a trovare la nostra via creativa».E la sua passione per l’arte come è sbocciata?
«Credo sia qualcosa di innato perché ho cominciato a leggere da sola e mi dovevano inseguire per togliermi i libri di mano… Quindi, la trasformazione in racconto della realtà è una cosa che proprio mi ha conquistata da subito».
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