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Dal giornalismo al volontariato. Silvia Manzani e l’esperienza con i migranti

A volte non ci si rende conto di quanto sia cruda la realtà che ci circonda, ma basta alzare lo sguardo per vedere che il più delle volte l’unica preoccupazione di tante persone è la sopravvivenza. Si tratta di gente che purtroppo fugge da guerre, fame, culture o governi troppo opprimenti, a cui non si può far altro che tendere la mano. Come è capitato lo scorso 31 dicembre con lo sbarco dei 113 immigrati avvenuto al Porto di Ravenna. Volti tristi, sguardi attoniti e smarriti, quelli scesi dall’Ocean Viking quel giorno, ma anche sorrisi e braccia aperte ad aspettarli e a dare loro la migliore delle accoglienze. Per l’occasione c’era anche la ravennate Silvia Manzani, che ha espresso la sua vocazione al mondo degli immigrati, entrando a far parte, da qualche anno, di una comunità e di un’associazione che accolgono, curano, crescono minori stranieri, che hanno dure storie alle spalle, ma sicuramente anche un fiorente futuro davanti. A Silvia abbiamo chiesto cosa significa per lei aver intrapreso questo straordinario percorso.Manzani, da dove nasce il desiderio di cominciare a lavorare nel sociale?

«La mia folgorazione è avvenuta nel 2019 quando ho fatto l’iscrizione al bando del “Garante per l’Infanzia” della Regione Emilia-Romagna, che ricercava tutori volontari per minori, una nuova figura introdotta dalla legge Zampa. Attraverso il bando ho avuto la fortuna di accompagnare un ragazzo albanese, del quale avevo la responsabilità legale, ma allo stesso tempo avrei dovuto affiancarlo nel percorso verso l’autonomia. Grazie a questa esperienza, ho capito di volermi avvicinare al mondo dell’accoglienza e del sociale legato all’immigrazione, quindi ho deciso piano piano di accantonare il mio vecchio lavoro da giornalista e di intraprendere questo nuovo bellissimo percorso».Nell’associazione Refugees Welcome Italia, qual è la sua principale mansione?

«In questa associazione, di cui faccio parte da circa un anno e mezzo, sono la referente territoriale di Ravenna, quindi, responsabile dei progetti riguardanti la città. L’associazione, inoltre, ha vinto il bando per gestire l’albo delle famiglie accoglienti del Comune e perciò mi sono ritrovata anche a lavorare a stretto contatto col Comune e con l’ufficio immigrazione».[vc_single_image image=”36220″ img_size=”full”]È la prima volta che ha avuto a che fare con un’esperienza come quella dell’Ocean Viking?

«Assolutamente sì. Ho sempre avuto in mente di prendere parte all’esperienza di uno sbarco dei migranti, spostandomi per esempio in Sicilia o dove ce ne fosse bisogno. Ma mai avrei pensato ci sarebbe stato proprio qui a Ravenna».Che cosa le piace maggiormente del lavoro di cui si occupa?

«Mi piace principalmente vedere fiorire le persone! Ormai vedo sempre di più arrivare qui da noi ragazzi stranieri che all’inizio della loro integrazione sono sempre diversi, spaesati, smarriti, molto soli, ma poi col tempo vederli crescere, fiorire e diventare grandi è la cosa che mi dà più soddisfazione».A livello personale, come crede l’abbia cambiata?

«Lavorare in questo settore mi ha cambiata più a livello umano che professionale. Lavorare con persone con delle vulnerabilità è una scuola di vita ogni giorno, c’è sempre da imparare qualcosa perché in realtà è molto più quello che trasmettono questi giovani, rispetto a quello che si dà».Riguardo l’esperienza dello sbarco, si sta occupando tuttora dei 113 immigrati?

«Quattro minorenni dei 113 immigrati sono venuti nella comunità dove lavoro io, quindi sono loro vicina da quando sono sbarcati. Ancora oggi diamo loro tutta l’assistenza di cui necessitano. Ma sottolineo che non sono stati collocati nell’associazione dei Refugees Welcome, bensì nella comunità di minori stranieri di cui faccio parte, sita a Piangipane».È ancora in contatto con le altre associazioni incaricate nella gestione dei migranti o direttamente con essi?

«Sì, perché dopo lo sbarco è iniziato il nostro percorso di accoglienza».[vc_single_image image=”36224″ img_size=”full”]C’è sempre bisogno della mano di tante persone nel settore del sociale. Quale sarebbe un buon metodo per attirare soprattutto i più giovani?

«Beh, sicuramente l’esperienza concreta e diretta sarebbe un ottimo punto di partenza per toccare con mano una realtà di cui si sente fin troppo parlare, ma che effettivamente è completamente diversa. Sono molto ottimista sull’aiuto da parte dei giovani, soprattutto perché nelle nostre associazioni tanti sono i ragazzi tra i 20 e 25 anni che offrono costantemente il loro supporto. Quando si ha a che fare con l’esperienza diretta con gli immigrati e ci si rende conto che lo scambio può funzionare, è lì che si inizia a pensare al “perché non lo fanno tutti”. Quando invece tutti questi discorsi rimangono solo parole, si fa fatica a far sentire un po’ di appartenenza. Perciò consiglio a tutti di provare a fare un po’ di volontariato, anche per breve tempo, perché apre sicuramente delle porte. È successo a me in prima persona e come me, può succedere a chiunque altro».

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