29 Nov 2024 11:01 - In evidenza
Costantini a Stamboulis con Ai Weiwei per raccontare la Cina e l’arte come resistenza
Il graphic memoir “Zodiac”, pubblicato da Oblomov, sarà presentato venerdì 29 novembre alle 18, alla sala Spadolini della biblioteca Oriani di Ravenna.
di Roberta Bezzi
Si intitola “Zodiac”, l’ultimo lavoro dell’illustratore e fumettista ravennate Gianluca Costantini, realizzato insieme a Elettra Stamboulis per le sceneggiature e con l’artista e dissidente politico Ai Weiwei. Un graphic memoir in cui si racconta l’esperienza dell’esilio di Ai Weiwei, quella dell’arresto e dei contrasti con il governo cinese, ma anche l’amore dell’artista per i fumetti, il rapporto con il padre, poeta condannato ai lavori forzati dal regime cinese, i dialoghi con il figlio, l’arte come racconto personale e collettivo e i diritti umani.
L’opera sarà presentata a Ravenna, durante un incontro pubblico in programma venerdì 29 novembre alle 18, alla Sala Spadolini della biblioteca Oriani di via Corrado Ricci 26. A dialogare con gli autori Danilo De Biasio, giornalista e direttore del Festival dei Diritti Umani.
Come nasce l’idea di un graphic memoir con l’artista Ai Weiwei?
«Si tratta di un progetto voluto e realizzato insieme a lui fin dalle sue origini. Elettra Stamboulis e io lo abbiamo incontrato nel 2016, durante i preparativi della sua mostra a Palazzo Strozzi, a Firenze. Weiwei e io ci conoscevamo già virtualmente: collaboravamo a distanza su iniziative legate alla libertà individuale, supportando persone a cui venivano negati i diritti fondamentali, come Julian Assange, e discutendo spesso dei viaggi disperati dei migranti nel Mediterraneo.
L’incontro di persona ha però portato una svolta inattesa. Weiwei, con una franchezza che ci ha sorpresi, ci ha chiesto direttamente cosa volevamo realizzare con lui. Spinti da un’ispirazione spontanea, gli abbiamo proposto un libro, senza sapere esattamente cosa ne sarebbe nato.
Circa un anno dopo, siamo stati ricontattati dal suo studio a Berlino, e così ha avuto inizio il nostro viaggio immersivo in questo progetto, che ha richiesto impegno, confronto e un dialogo continuo».
Con Elettra, come vi siete ripartiti il lavoro? Qual è stata la parte più difficile e al contrario più agevole e appassionante?
«Inizialmente, ho dovuto immergermi nello studio del disegno cinese, sia antico che contemporaneo, per comprendere appieno l’estetica che Weiwei aveva in mente. Dopo un’attenta ricerca, ho scelto uno stile composto da linee sottilissime, senza campiture di nero piene, che ha conferito al libro un’estetica profondamente orientale, in sintonia con la tradizione cinese ma con uno sguardo contemporaneo. A quel punto è stato necessario entrare più a fondo nella Cina stessa: ho osservato da vicino i volti delle persone, l’architettura delle loro città, e mi sono lasciato ispirare dall’arte contemporanea cinese.
Questa fase è stata fondamentale per cogliere la complessità e le sfumature del contesto che stavamo cercando di raccontare. In parallelo, Elettra si è dedicata a un lavoro di immersione psicologica, studiando il pensiero di Weiwei per scrivere una sceneggiatura che fosse fedele alla sua visione e alle sue intenzioni. Per lei, si è trattato di entrare quasi ‘nella ment’” di Weiwei, interpretando ciò che lui desiderava comunicare attraverso il libro. Il progetto ci ha richiesto oltre tre anni di lavoro, durante i quali ci siamo confrontati e abbiamo lavorato in sintonia con Weiwei per dare vita a un’opera che riflettesse tanto il suo mondo quanto il nostro contributo artistico».
Come ha preso spunto l’artista dai dodici segni dell’oroscopo cinese?
«Ai Weiwei ha una lunga storia di lavoro sui segni zodiacali cinesi, e le sue celebri dodici sculture in bronzo che li rappresentano sono ormai iconiche a livello internazionale. L’idea di dedicarci allo zodiaco per il nostro progetto è stata un’intuizione di Elettra, che Weiwei ha accolto con entusiasmo. Questo tema ci ha permesso di strutturare il libro in dodici capitoli, ognuno ispirato a un segno zodiacale cinese, attraverso i quali raccontiamo non solo gli ultimi giorni di Weiwei in Cina prima della sua partenza, ma anche numerosi casi legati ai diritti umani e alla libertà di espressione.
Abbiamo intrecciato questi temi con riferimenti all’arte contemporanea cinese, alla mitologia tradizionale e, inevitabilmente, alla politica cinese, creando un racconto che riflette l’universo complesso e spesso contrastante in cui si muove l’opera di Weiwei. Il risultato è un’unica storia in cui questi elementi si amalgamano, offrendo al lettore uno sguardo profondo e articolato sulla Cina moderna e sulla vita di Weiwei, ma anche sulle sfide universali che egli affronta attraverso la sua arte».
Qual è la riflessione che emerge sul clima socio politico di oggi, attraverso la narrazione della vita di Ali Weiwei?
«Una riflessione profondamente critica e rivolta ai pericoli del totalitarismo e alla censura. Ai Weiwei, con il suo vissuto di resistenza e oppressione, mette in luce come i regimi autoritari soffochino la libertà di espressione, intrappolando i loro cittadini e impedendo la piena realizzazione dell’arte e del pensiero critico. Nel libro, Ai richiama la figura dei topi, intelligenti ma anche considerati ‘parassiti’, come simbolo delle persone che tentano di sopravvivere in condizioni avverse, sottolineando l’importanza della resilienza e dell’ingegno di fronte alle oppressioni.
Il racconto è attraversato da metafore e fiabe che, in un linguaggio apparentemente semplice, denunciano la corruzione e il controllo imposto dal potere. I personaggi – come il ‘monaco falso’ identificato con Mao Zedong o il poliziotto che incarna l’autorità cinese – rappresentano un potere che esige conformità, addirittura riducendo l’artista a ‘operaio dell’arte’ secondo i dettami del partito. In definitiva, Ai Weiwei afferma che l’arte non può esistere senza la resistenza attiva contro le ingiustizie. In questo contesto, l’artista è anche un attivista, e chi sceglie di non esserlo, secondo Ai, ‘è un artista morto’. Questa riflessione è un richiamo universale alla responsabilità sociale dell’arte e alla necessità di mantenere sempre aperta ‘la porta della libertà di parola e di pensiero’, un concetto particolarmente rilevante in un’epoca di crescente controllo e restrizioni autoritarie in molte parti del mondo».
Vi è capitato di andare in Cina?
«No, non ci siamo stati, ma è stato comunque affascinante realizzare questo libro da lontano. Abbiamo dovuto immergerci nella cultura, nella storia e nella società cinese attraverso ricerche e racconti, cercando di cogliere l’essenza di un luogo che non abbiamo vissuto in prima persona. Questo lavoro di ‘viaggio virtuale’ ci ha permesso di esplorare la Cina con uno sguardo nuovo, interpretando il mondo di Ai Weiwei e le sue esperienze in un modo diverso, forse ancora più intenso proprio perché mediato dalla distanza».
Da sempre lei è conosciuto per l’impegno per i diritti umani nei suoi lavori. A che punto siamo oggi rispetto a quando ha iniziato? C’è stato qualche passo in avanti?
«Negli ultimi anni, purtroppo, la situazione è drasticamente peggiorata. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina, il conflitto in Sudan, e soprattutto l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, seguito dalla feroce reazione di Israele, il sistema internazionale di protezione dei diritti umani sembra essere crollato. Quando vengono infrante le regole fondamentali, quelle più semplici e umane, le persone perdono fiducia nell’intero sistema internazionale.
Attacchi a ospedali, colpi inferti ai convogli umanitari, strategie che riducono le persone alla fame – sono tutti segnali che richiamano un passato oscuro che pensavamo di aver lasciato alle spalle. Eppure, quel passato è tornato, ancora più spietato e crudele. Io continuo a contribuire con i miei disegni e alcune azioni simboliche, ma diventa sempre più demoralizzante e scoraggiante andare avanti. Come dice Ai Weiwei, però, ‘un artista che non è un attivista è un artista morto’, e questa consapevolezza mi sprona a non arrendermi».
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