07 Apr 2024 18:38 - Cronaca
Torri Hamon, Antonioni: «Non si può costruire sulle macerie del passato». Corteo in Darsena
La nipote del regista: «Salviamone almeno una. Non solo per mio zio e per "Deserto Rosso", ma perché sono un'importante esempio di archeologia industriale». Landi: «Antonioni mi raccontò che scoprì Ravenna andando a giocare a tennis a Marina. Una città antichissima, con intorno queste fabbriche moderne» I manifestanti si appellano a Eni, Autorità Portuale e Comune
di Lucia Bonatesta
«Salviamo le torri Hamon», «Senza memoria non c’è futuro», «Il deserto rosso 60 anni dopo». Così recitano alcuni degli striscioni che sfilano lungo la Darsena di Ravenna nel pomeriggio di domenica 7 aprile, mentre sullo sfondo la gru rossa ha già demolito buona parte della prima torre di raffreddamento.
Il ricordo di Michelangelo Antonioni
È l’ultimo atto per tentare di salvare i due giganti architettonici – alti 55 metri – che svettano lungo via Trieste, nell’area dell’ex Sarom, dove presto l’Autorità Portuale darà vita al suo impianto fotovoltaico, una volta ultimato l’acquisto da Eni. A manifestare c’è anche Elisabetta Antonioni, nipote di Michelangelo, che in quelle torri e nell’industria ravennate aveva visto il simbolo perfetto per il suo film “Deserto Rosso“, girato nell’inverno 1963-64 e vincitore del Leone d’Oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 1964.
«Quando ho saputo che stavano demolendo queste torri, non è stata una bella notizia. Sicuramente sono un ricordo di mio zio e del film “Deserto Rosso”, ma per Ravenna sono anche un importante esempio di archeologia industriale. Se ne può salvare almeno una. Certamente il progresso va avanti, ma non si può costruire sulla macerie del passato», afferma Antonioni. Dal 2011 la nipote del regista è presidentessa dell’associazione Michelangelo Antonioni, nata per tutelarne, valorizzarne e promuoverne l’attività artistica.
A ricordare il regista è anche Marcello Landi, presidente dell’Associazione Dis-Ordine: «Quando ho conosciuto Michelangelo Antonioni, mi ha raccontato che scoprì Ravenna andando a giocare a tennis a Marina di Ravenna. Vide questa città antichissima, circondata però da fabbriche moderne costruite nel Dopoguerra. Fu questa visione a ispirarlo per “Deserto Rosso”».
«Oltre a essere nella memoria di tutti, le torri sono già sedimentate nell’iconografia ravennate grazie a un mosaico di Antonio Rocchi dei primi anni ’60, che si trova dentro al Ginanni. In tutta Italia le hanno recuperate, qui vogliamo demolirle», conclude Landi.
Le torri Hamon come esempio di archeologia industriale
A organizzare la manifestazione sono l’Accademia di Belle Arti di Ravenna, insieme ad Aipai (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale), associazione Dis-Ordine, Fai delegazione di Ravenna, Italia Nostra sezione di Ravenna, Save Industrial Heritage e Spazi Indecisi. Sono stati invitati anche rappresentati delle istituzioni, dopo la netta presa di posizione da parte del sindaco Michele de Pascale, che lo ha definito un «triste addio ma necessario».
«Dobbiamo ricordare che abbiamo non solo un patrimonio Unesco, ma anche un patrimonio di architettura industriale riconosciuto in tutto il mondo – afferma Massimo Bottini, architetto e consigliere di Aipai -. Questi edifici del Dopoguerra raccontano anche un mondo del lavoro italiano, che ci ha permesso di fare la nostra rivoluzione industriale con il cemento. Questi sono esempi della via italiana all’archeologia industriale, a partire da Nervi per arrivare a queste torri, vanno manutenuti. Ne abbiamo esempi positivi anche qui, come il Museo Classis e il campus universitario di Cesena, entrambi ex zuccherifici».
Sono qualche decina i manifestanti della Darsena. A farsi voce è Francesca Santarella di Italia Nostra: «Chiediamo a Eni, Autorità Portuale e Comune che ne venga salvata almeno una. Vogliamo che sia una testimonianza di ciò che è stata Ravenna e di ciò che vogliamo che sia: cioè di una città che non si dimentica del proprio passato industriale e che anzi ne faccia tesoro».