Fondazione Sabe per l’Arte, bilancio positivo della prima parte di stagione

Prima del brindisi finale, nell’ultimo incontro Giovanni Anceschi e Luca Scarabelli hanno raccontato le origini del celebre Gruppo T negli anni Sessanta e di Vegetali Ignoti, trent’anni dopo

Con l’ultimo evento collaterale legato alla mostra “Levia Gravia”, si è chiusa nei giorni scorsi la prima parte della stagione espositiva della Fondazione Sabe per l’Arte di Ravenna. «Dallo scorso settembre si sono susseguite due mostrericorda il direttore artistico Pasquale Fameli, critico d’arte e studioso dell’Università di Bologna –. Quelle di Giuliana Balice a cura di Italo Tomassoni, la doppia personale di Valerio Anceschi e Luca Scarabelli a cura di Francesco Tedeschi, che hanno riscosso un notevole interesse, anche grazie agli incontri collaterali con i quali tentiamo di rinnovare l’interesse nei riguardi delle esposizioni in corso, diversificando a al contempo l’offerta culturale».

L’obbiettivo della Fondazione Sabe per l’Arte

Aperta nel novembre 2021 in via Pascoli 31, su iniziativa di Norberto Bezzi e di Mirella Saluzzo, la galleria ravennate ha per obiettivo la promozione e diffusione dell’arte contemporanea, con particolare attenzione alla scultura. «Siamo molto soddisfatti – prosegue Fameli –. L’attività è in continua crescita e ci sono già nuovi progetti all’orizzonte che ruotano sempre attorno alla scultura, ma intesa in senso ampio e in relazione con altri linguaggi artistici. Dopo la consueta pausa estiva, a settembre rinnoveremo la collaborazione con Cantieri Danza per il festival Ammutinamenti, ospitando tre eventi in due giornate. A ottobre, invece, l’ultima mostra dell’anno che si inserisce nel programma della “Biennale Mosaico”».

L’ultimo incontro

Nell’ultimo incontro in Fondazione, prima del brindisi finale, si è tenuto un sorprendente dialogo, intitolato “Percorsi fluidi e vegetali ignoti”, tra Giovanni Anceschi (padre di Valerio Anceschi), Luca Scarabelli e Francesco Tedeschi. Il primo, Anceschi, è stato uno dei protagonisti della cultura visiva degli anni Sessanta, sia come artista, autore di realizzazioni come i ‘percorsi fluidi’ cui ha dato vita nell’ambito delle ricerche di arte programmata e cinetica, sia come studioso e teorico nell’ambito del design e della comunicazione. Il secondo, Scarabelli, ha a lungo collaborato con Riccardo Paracchini e altri artisti, attraverso “Vegetali ignoti”, uno dei progetti che hanno caratterizzato il panorama di un’arte ‘relazionale’ tra gli anni Novanta e i primi Duemila, proponendo inoltre rapporti con autori e luoghi, ed esposizioni in centri minori con lo scopo di coinvolgere un pubblico differenziato. Il terzo, Tedeschi, è il curatore della mostra e del catalogo “Levia Gravia”, che ha intervistato i due artisti, cercando di indagare le tappe principali dei loro percorsi artistici.

«Personalmente conosco Giovanni e Valerio da parecchio tempo – ricorda Tedeschi –. La conoscenza è scaturita da Valerio, che era nella classe in cui insegnavo al liceo artistico. Ognuno di loro due ha fatto la sua strada. Il titolo dell’incontro fa riferimento all’essenza del lavoro di Giovanni Anceschi, “Percorsi fluidi”, e di Luca Scarabelli, “Vegetali Ignoti”». Il discorso è partito dal concetto di ‘opera aperta’, cara agli artisti che nel 1959 hanno dato vita al celebre Gruppo T, dove la T sta per tempo. «Volevamo dare l’idea di un’opera in divenire, non statica, che segue i mutamenti del mondo – racconta Anceschi –. La nostra arte giocava con l’aspetto della trasformabilità e della partecipazione anche da parte dello spettatore, di chi vedeva e toccava i lavori. Scherzando, tra noi artisti, dicevamo: “Vietato non toccare”.

Le nostre erano opere fluide e liquide, neanche a farlo apposta parole molto diffuse nei decenni successivi. D’altra parte, dovere degli artisti è un po’ quello di essere anticipatori. La nostra inoltre era un’arte plurale, fatta da più voci, e anche questa era una grande novità. La partecipazione dello spettatore invece produceva l’imprevedibilità. E si sa un’opera per essere innovativa, deve essere imprevedibile». Cosa voleva dire far diventare scultura un elemento liquido? «Significa non intenderla come forma compiuta e finita, dunque una vera e propria rottura con il passato». La mostra “Olivetti e l’arte cinetica” del 1962 girò per l’Europa e per il mondo e alcune opere vennero acquistate da chi aveva lungimiranza, come i musei statunitensi. «I miei maestri furono Natale Munari e Lucio Fontana – prosegue Anceschi –. Ricordo, in particolare, l’operazione Natale nel 1962 per portare una torre di luci in piazza Duomo, in una Milano che era la città epicentro del boom economico. Eravamo molto avanti, forse troppo». Il giovane Anceschi, a un certo punto, ‘vira’ verso il design e la grafica andando a studiare a Ulm in Germania, mollando tutta l’arte cinetica e programmata.

Trent’anni dopo, negli anni Novanta, Luca Scarabelli, insieme ad altri amici, fa partire un’impresa stravagante – “Vegetali ignoti” – in un periodo in cui l’arte si faceva insieme, era ‘l’arte relazionale’. «Abbiamo usato un nome idiota perché non significava nulla in realtà – spiega Scarabelli –. Il nostro progetto non era tale in realtà, si procedeva per ‘rotolamento’, facevamo le cose solo perché ne sentivamo la necessità. Non eravamo un gruppo, più un duo, Davide Paracchini e io, e coinvolgevamo di continuo gli amici artisti, e anche i curatori e studiosi, proponendo degli eventi tra Varese e Como con la speranza che funzionassero. Eravamo di base degli ingenui, non pensavamo a quella che poi è stata l’arte relazionale. Ognuno di noi aveva la propria attività artistica, ma sentivamo la necessità di fare qualcosa in più». Con il passare del tempo, tante sono le cose realizzate, più di quello che avremmo immaginato. Per esempio, esperimenti di documentazione del passato con foto Polaroid, una piccola rivista “Quaderno” autoprodotta con interventi di artisti amici, incontri col pubblico, organizzazione di mostre in luoghi insoliti come i bar, le scuole, per capire come un’opera d’arte potesse funzionare nel quotidiano. «Eravamo anche molto giocherelloni – conclude Scarabelli –. Per esempio ci siamo divertiti a inserire in tutte le mostre il nome di una certa Margaretha Zelle, un’artista rimasta sempre sconosciuta. In realtà, non esisteva, era il vero nome di Mata Hari».

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